Killing them softly
M. Night Shyamalan è uno di quegli autori destinati a dividere sempre e comunque. Tanto premesso, è opinione di chi scrive che il film con cui ci aveva lasciato – Old (2021) – stia fra i picchi più alti della sua carriera, a conferma di un periodo di ritrovata grazia che dura dall’ormai lontano The Visit (2015).
Non sarà certo un fanta-thriller solido e ben gestito come Bussano alla porta a farci parlare di inversione di tendenza. Proprio il confronto col predecessore può però servire da una parte a ridimensionare certi entusiasmi sull’ultima fatica di Night, dall’altra a mettere il dito sulle inedite dimensioni politiche di cui il suo cinema va rivestendosi nell’era post-covid.
La premessa narrativa è simile. Anche qui una famiglia si reca in vacanza in un lussuoso resort scovato su Internet, dove li attendono un lungo incubo ad occhi aperti e (forse) l’incontro col soprannaturale. Shyamalan flette i possenti muscoli della sua messa in scena, ineguagliata nel trarre tensione e spaesamento dalla mera applicazione delle regole del linguaggio cinematografico. In Bussano alla porta, per quanto a tratti magistrale, il risultato appare tuttavia meno illuminante che in Old, limitandosi all’eccellente esecuzione di un cul de sac polanskian-hitchcockiano che però non sfiora mai la vertigine concettuale di quel film e dei suoi migliori. Se il “come” non è in ogni caso in dubbio, l’aspetto davvero cruciale di Bussano alla porta è rappresentato dalla miscela politica esplosiva che il suo appello alla Fede (l’ennesimo nella carriera di Shyamalan) rischia di costituire nel mondo post-pandemico del 2023. Come spiega bene questo articolo di Alberto Libera, al centro del suo cinema c’è l’idea che le storie – intese proprio nel senso di “grandi narrazioni” – rappresentino l’unica palingenesi in grado di risanare un tessuto sociale, umano, familiare altrimenti frammentato e sofferente. Anche qui come in Signs (2002) bisogna dunque abbandonarsi fideisticamente al racconto dei quattro visitors, ricostruito a partire da proiezioni schermiche e frammenti di sogni.
Così com’è giusto ammirare l’umanismo profuso in una tale visione, non si può non notare ciò che in essa – oggi più di ieri – fa problema. E cioè come, nell’affermare il potere salvifico della narrazione, Shyamalan spesso elegga a bersaglio polemico quell’altro grande orizzonte di senso odierno che è la razionalità scientifica. Proprio come Old, capolavoro che però lasciava lo spettatore con una raggelante bordata finale alla ricerca medica; o come Avatar – La via dell’acqua (2022), dove, nella sua rifondazione omerico-disneyana della famiglia tradizionale, James Cameron non dimentica di inserire una sequenza in cui una sciamana scaccia un medico dal capezzale di un ferito.
Frammenti di una temperie culturale, quella seguita alla pandemia e al feroce dibattito su necessità/repressività delle contromisure prese dai governi, che non è ovviamente esente da appartenenze e odi politici in un senso o nell’altro. Sempre a tal riguardo, anche volendo dare il beneficio d’inventario a una sceneggiatura che professa orgogliosamente di non avere “neanche una cellula omofoba”, è perlomeno una sfortunata coincidenza che dall’altra parte dell’ennesima tirata new age e familista di Night ci sia stavolta una coppia gay, dando proprio alla sottolineatura un qual certo sentore di coda di paglia.
Il punto comunque è, di chi preferiamo fidarci? Delle statistiche o di quella figura che forse abbiamo visto in uno specchio? Dei cinque sensi o del sesto?