Darling, hold me, kiss me and never let me go
Kathy, Ruth e Tommy crescono nel collegio di Hailsham, immerso nella campagna inglese, senza alcun contatto o conoscenza del mondo esterno, seguiti, accuditi e istruiti da un gruppo di tutori.
Scopriranno presto di essere in realtà cloni creati al solo scopo di donare organi ai malati. Esattamente come gli umani da cui sono stati generati, provano sentimenti come l’amore, il desiderio sessuale, la gelosia, temono la solitudine ma soprattutto sono schiacciati dal senso di estrema finitezza delle loro vite e dalla rassegnata consapevolezza di una morte tanto prematura quanto imminente. Dopo tre o quattro donazioni, il loro ciclo vitale si completerà, giungendo al termine.
A differenza dei replicanti di Blade Runner o dei cloni di The Island, anch’essi prodotti in laboratorio per la donazione di organi, i protagonisti di Non lasciarmi vanno incontro al loro destino senza mai cercare di ribellarsi né tanto meno di sfuggirgli. L’unica speranza è riposta nell’ottenimento di un “rinvio”, una proroga che posticipi l’inizio delle donazioni, e quindi della loro morte, di qualche anno, tre o quattro al massimo. Una speranza che si infrange contro la “banalità del male” di una società che si ostina a vederli solo ed esclusivamente come serbatoi di organi privi di anima, a cui attingere fino all’estrema consunzione e svuotamento dei loro corpi, abbandonati ancora aperti sul gelido tavolo di una sala operatoria.
Un melodramma straziante, raggelante, politico, che pone importanti riflessioni e interrogativi di natura filosofica e bioetica. La sceneggiatura di Alex Garland lima, asciuga, rimodella l’ottimo romanzo di Kazuo Ishiguro, a cui rimane sostanzialmente fedele, anche nella struttura narrativa suddivisa in tre parti, e innesta un inquietante scenario fantascientifico e distopico nel nostro passato recente, per la precisione tra il 1978 e il 1994, mescolandolo a riferimenti iconografici ed estetici che rimandano all’orrore dei campi di concentramento nazisti. Una distorsione temporale che provoca un forte senso di spaesamento, vertigine, angoscia e straniamento. Il regista Mark Romanek opta per una messa in scena dai toni delicati, malinconici, sofisticati ma non per questo meno potenti, anzi, la forza di certe immagini colpisce e incide in profondità quanto i bisturi di quei chirurghi votati ad una scienza malata. Con grande intelligenza lavora sui corpi degli attori/cloni, senza mai insistere troppo sui lividi e le cicatrici, ricordandoci che i loro corpi sono anche i nostri corpi perché, come afferma Kathy, in fondo le loro vite non sono poi tanto diverse da quelle delle persone che salvano.