Della controversia su La banalità del male
Comprendere vuol dire “esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro tempo ci ha messo addosso” (da Le origini del totalitarismo), cioè antisemitismo e Shoah; è questo che vuole fare Hannah Arendt, una delle pensatrici più illuminate, audaci e coraggiose del Novecento.
Libera e indipendente, pensiero forte, non “misera foglia ghermita dal turbine della storia”, come tocca all‘innerer Schweinehund* Eichmann. Ha elaborato il concetto di “crimine contro l’umanità”, dichiarando il suo amore per essa proprio nella sua individualità, dell’importanza della politica come fondamento di vita, della “banalità del male”, dei lager, luogo in cui gli uomini sono superflui. Margarethe Von Trotta ripercorre la vita della filosofa dal ’61 al ’64 nel film Hannah Arendt – nel 2012 al Festival di Toronto. La donna, la pensatrice. Ebrea per nascita, emigrata e apolide per decisione della Storia – fino al 1951, anno in cui ottiene la cittadinanza americana -, segue come obbligo verso il passato, in veste di corrispondente del The New Yorker nel 1961, il processo al mostro (paramilitare e funzionario tedesco ritenuto uno dei responsabili dello sterminio degli ebrei). La pubblicazione in cinque parti del suo articolo, inserito poi in La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, ha sconvolto il mondo, aprendo un aspro dibattito: Eichmann non è un mostro, è solo esecutore di ordini per lui Legge, inconcepibile; le alte gerarchie ebraiche hanno in qualche modo “partecipato” allo sterminio, addirittura blasfemo. Lucida, ironica e altamente metaforica, docente appassionante e appassionata, fumatrice incallita, litiga con i pensieri da gettare sul foglio, fa a botte con i ricordi – flashback del passato -, ma non torna mai indietro. La protagonista è supponente, così sicura da rasentare l’arroganza, dimostrando non tanto la voglia di capire quanto quella di sfidare la società fallocratica – la regista sostiene che se la Arendt fosse stata uomo tutto sarebbe stato diverso. La Von Trotta, narratrice di donne dalla grande personalità, guarda a questo nume tutelare della filosofia moderna, “esploratrice” del “volto dell’altro”, con un’attenzione quasi documentaristica (momenti del processo reale): niente fronzoli, carrelli e camera fissa diventano cifra stilistica di un film che sviscera un pensiero, un film di parole più che d’azione. Ciò che manca all’opera è proprio il coinvolgimento emotivo – colpa imputata anche alla filosofa nel film -, ma forse questo era necessario per capire uno dei momenti più drammatici della Storia, per non cadere nell’errore contrario, per sviscerare con imperturbabile lucidità la banalità del male.
* “essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno” (da La banalità del male), Eichmann è convinto di non essere tale ma di avere solo eseguito degli ordini.
Hannah Arendt [id., Germania/Lussemburgo/Francia 2012] REGIA Margarethe Von Trotta.
CAST Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen, Michael Degen.
SCENEGGIATURA Margarethe Von Trotta, Pam Katz. FOTOGRAFIA Caroline Champetier. MUSICHE André Mergenthaler.
Drammatico, durata 113 minuti.