Un uomo tutto d’un pezzo
James B. Donovan, abile avvocato dell’America del 1957, è chiamato come legale d’ufficio per difendere una spia sovietica, il mite Rudolf Abel. James è un uomo che da questa storia ha solo da perderci, la reputazione agli occhi dell’opinione pubblica, della famiglia e dell’agenzia assicurativa per cui lavora, un ruolo tanto infamante ma che per dovere civico decide di accettare, e questo perché l’urgenza è quella di dimostrare come costituzionalmente a chiunque viene garantita una difesa di buon livello, e James proprio in quest’ottica interpreta il proprio ruolo, senza cedere allo sbigottimento generale per il suo impegno.
In James c’è tanto Hitchcock, Il ponte delle spie non racconta solo della difesa ma del compito cui James viene coinvolto casualmente, quasi come il Cary Grant di Intrigo internazionale, nella trattativa di scambio tra Rudolf e un pilota statunitense catturato dai sovietici mentre sorvolava il territorio russo. Ecco allora che il tranquillo avvocato assicurativo finisce per essere un uomo che sa troppo, in bilico tra due superpotenze antagoniste, che come prova di forza fanno finta di non osservarsi. Il “ponte” cui si riferisce il titolo altro non è che lo spazio in cui Stati Uniti e URSS si trovano a sfiorarsi, nascondendo le trattative che instaurano di segreto e usando altri Stati (la Repubblica democratica tedesca terzo incomodo nell’affare, con tra le mani uno studente americano da scambiare) come palcoscenico di teatro che neutralizza ufficialmente i contatti. Il ponte delle spie racconta la piccolezza di agenzie di spionaggio governative che come bambini non si guardano mai in faccia perché offese le une dalle altre, mentre è proprio James, con la sua inamovibile responsabilità civica, a ergersi come gigante in un gioco che sembra solo più grande di lui, tra spie e agenti governativi che hanno come unico interesse quello di esser spaventati per i segreti non mantenuti delle proprie spie imprigionate. Spielberg realizza una pellicola ricca dal senso del racconto, affianco a una stupenda e affascinante ricostruzione della Berlino scissa, spazio che riverbera le azioni morali di James a New York, quasi parallelamente come mostra la sequenza in chiusura. In un certo senso Il ponte delle spie è una pellicola gemella a Lincoln: se in quest’ultimo Spielberg mostrava come un’icona della storia statunitense si fondasse su un imbroglio per affermare la propria base ideologica costituzionale, è allo stesso modo un imbroglio quello che James mette in atto, a dispetto di tutte le pressioni che riceverà, un imbroglio che riafferma la sua coscienza civica, ma più profondamente identifica una diversa rappresentazione di una figura fondativa nella narrativa americana, quella di un uomo inamovibile dalle proprie convinzioni e tutto d’un pezzo. Spielberg, accanto a una serie di semplificazioni retoriche che ne limitano in parte la forza del racconto, realizza una pellicola mai banale e che genuinamente nasconde dietro l’articolato impianto narrativo la propria urgenza e forza moralmente civica.
Il ponte delle spie [id., USA 2015] REGIA Steven Spielberg.
CAST Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Austin Stowell.
SCENEGGIATURA Joel Coen, Ethan Coen, Matt Charman. FOTOGRAFIA Janusz Kaminsky. MUSICHE Howard Shore.
Thriller, durata 141 minuti.