La parabole non del tutto convincente di una artista crudele come l’arte
In momenti di crisi l’arte diventa la roccaforte dei disadattati. Non fa eccezione Lydia Tár (Cate Blanchett), una geniale compositrice e direttrice d’orchestra che ha tutti gli strumenti in mano per plasmare il mondo, almeno quello della musica, a sua immagine e somiglianza.
È un demiurgo terribilmente affascinante che si muove veloce e sicura nel mondo brutale della musica, avvolta sempre in una androginia e in un fascino che colpisce tutti: uomini, donne, fluidi e alieni grigi compresi.
Todd Field dirige a momenti magistralmente, in altri con ‘cali di personalità’, la parabola neanche troppo amara della direttrice d’orchestra. In una scena degna di una antologia di sceneggiatura e recitazione (sicuro Cate Blanchett vincerà ogni cosa possibile, se non a Venezia ai Golden and so on), quando smonta con raffinato sadismo uno studente progressista della Juilliard School – e con lui questi anni di oscurantismo, ignoranza, intransigenza bovina che chiamiamo progresso, mentre perdiamo terreno su ogni battaglia importante in materia di diritti civili – pensi che il lavoro di Todd Field possa toccare se non le vette del Parnaso almeno stuzzicare il nostro intelletto. Sembra che Tár voglia fare un discorso sull’arte, sullo scindere l’uomo dalla sua opera, sul genio, su quei talenti che crediamo di avere mentre, invece, brancoliamo credendo di lasciare una impronta indelebile nella storia. Tár si rivela, semplicemente – senza nulla togliere a una macchina ineccepibile o quasi – una regolazione di conti, la tanto sospirata parità di genere anche nelle colpe da distribuire: anche le donne, lesbiche come Lydia o no, possono sporcarsi le mani di merda e pagarne lo scotto sotto lo stendardo del #Metoo.
Nel suo sentirsi un moderno Pigmalione, potente, usando la bacchetta come metro per giudicare tutto e tutti e nascondersi da un’emotività con cui non sa venire a patti, Lydia – in una Berlino più grigia e inutile che mai – si circonda di collaboratrici o protette che alterna come spartiti musicali. Una di queste, la fedele Francesca (Noémie Merlant), inizia a vedere con nuovi parametri questo Maestro tanto osannato nel mondo. Ma che importa quando all’orizzonte c’è una violoncellista che di classico non ha nulla, ma possiede quello spirito punk, adolescenziale, fuori tempo massimo e quella giovinezza (diversamente dalla compagna di Lydia) che sembra una fonte inesauribile – fino alla prossima “vittima” – per l’arte di Tár, alla prova con una nuova composizione. Eppure, Sharon (Nina Hoss) non è la Tadzio di Morte a Venezia, non è la crudeltà di una vita che si dirada velocemente alle prime luci dell’alba, è semplicemente la cartina tornasole per far capire, almeno a chi guarda, che la direttrice d’orchestra, al di là del genio, non è che una manipolatrice come quelli che hanno conosciuto la gogna mediatica negli ultimi anni.
Se la musica è l’arte più soggettiva ed emotiva tra tutte, è anche vero che è la più crudele nel suo manifestarsi concretamente. E Tár lo sa bene, incapace di fare un passo indietro, indifferente – se non superficialmente – alla sua stessa figlia (anche se non privata di cure e protezione), ostinata a non chiedere perdono per i suoi peccati. Così si ricicla: non più a Berlino, non a New York, ma lontano, verso nuovi ambienti dove poter continuare la sua attività venatoria lontano dal giudizio supremo della musica e della storia.