Qualcuno era comunista
Ormai lo hanno capito anche i sassi che Nanni Moretti da La stanza del figlio in poi ha deciso di modificare il proprio linguaggio cinematografico, pur mantenendo alcuni elementi caratterizzanti della propria poetica, che compaiono persino nel suo film meno amato e compreso, Tre piani.
Di conseguenza risultano pleonastici i cori lamentosi davanti a Il sol dell’avvenire, i quali invocano il tocco comico-polemico del Moretti anni Ottanta e Novanta, sottolineando la fiacchezza ritmica in questo suo ultimo lavoro.
Hanno comunque torto anche coloro che esclamano: finalmente Nanni è tornato ai tempi di Sogni d’oro e Palombella rossa! Il sol dell’avvenire è un’opera sull’invecchiamento di uno sguardo verso il cinema e il mondo, lo sguardo di Moretti autore, interprete e persona che fa un bilancio della propria arte e del proprio vissuto. Quindi è ovvio che il catalogo di morettismi, così ben allineati, non ha la presunzione di ripetersi pedissequamente come una volta, ma ne è la versione (volutamente) opacizzata e tristemente parodica. Non c’è nessun fan service per accontentare gli assidui seguaci del cineasta, rimasti delusi dai suoi precedenti lavori, ma solamente una continua messa in discussione da parte di Moretti stesso dei propri topoi, chiedendosi se possono ancora funzionare come sguardo critico rivolto all’oggi. L’operazione è simile a quella dell’ultimo Woody Allen in Rifkin’s Festival, esprimendo un rifiuto radicale per la contemporaneità (cinematografica, politica, culturale, umana) e rifugiandosi in un passato (che è puro sogno) fatto di vecchie canzoni pop italiane, cinema antologizzato e piccoli ricordi personali.
Non c’è più la nostalgia rabbiosa del pallanuotista che invocava urlando un passato che non tornerà più, ora c’è solo una malinconia sospesa e leggera, che raggiunge il suo climax nella sequenza del ballo collettivo con le braccia orizzontalmente aperte. L’ideologia comunista era già andata in frantumi in Palombella rossa per poi venire ripensata in Aprile, da cui ne veniva fuori uno sconsolato ritratto ingrigito e imborghesito del PCI. Ora Nanni fa del comunismo un sogno sognato, una danza cinematografica che cambia il corso della Storia e questo vorticare su sé stessi, quasi fino a perdere l’equilibrio (come i fraticelli nel finale del rosselliniano Francesco giullare di Dio), diventa allegoria di un Moretti che ha perso la bussola della realtà e preferisce crogiolarsi in ciò che più gli piace. Esemplare la lunga sequenza in cui Nanni tiene in ostaggio un intero set, per convincerlo della mancanza di etica nell’impiego della violenza all’interno del cinema contemporaneo. Non è una inutile ripetizione del famoso sfogo contro Henry, pioggia di sangue, ma la sua triste conseguenza. Moretti ha perso su tutta la linea e lo sa.
Il sol dell’avvenire è fin dal titolo un film amaramente sarcastico, sulla morte di tutto quello che poteva essere e che non si avverato, un compendio appassionato, ironico e rassegnato, ma soprattutto il canto del cigno di una generazione e della sua visione di mondo. E per tutti quelli che considerano l’ultimo Moretti alla stregua dell’attuale cinema medio italiano, si meritano solamente Archibugi e Özpetek.