A volte ritornano
Che “le regole sono cambiate” ce ne siamo accorti, eccome. Prima tra tutte quella, tacita, sottesa per anni ai fasti di Scream: la vena comica dissacrante che nell’inettitudine dei vari Ghostface – goffi, impacciati e inutilmente redivivi – trovava il proprio emblema inconfondibile.
Accanto alla logorrea citazionista, progressivamente armonizzata, l’irriverenza anti-convenzionale e la detection perennemente frustrata sull’identità dell’assassino eleggevano la prima trilogia ad esperimento dichiaratamente ludico di decostruzione. Adesso che l’autoreferenzialità è prassi canonica e (ab)usata, il ritorno di tre capitoli firmati da Wes Craven non poteva che incuriosire. Scream 4 riprende il filo degli eventi, dieci anni più tardi.
Con il rientro di Sidney Prescott (Neve Campbell) nella città natale di Woodsboro, l’ennesimo copycat di Ghostface inaugura una nuova serie di omicidi, stavolta ispirati da regole inedite.
Se gli “stabber” dei film precedenti non erano immuni alla megalomania, l’esibizionismo di ultima generazione appare esasperato dall’esprit du temps. La proliferazione dei network e dei dispositivi di visione costringe l’individuo ad un’inevitabile esposizione che non ha più niente di esclusivo, anzi promuove una celebrità scadente proprio in quanto diffusa e condivisa. La popolarità concessa dai new media è instabile e casuale, per molti versi in conflitto con l’ideale americano di meritocrazia. Gli stessi Gale (Courteney Cox) e Linus (David Arquette), ideali tutori di Sidney nonchè simboli, un tempo impareggiati, della stampa e delle forze dell’ordine, subiscono una drastica perdita di incisività che nella moltiplicazione del ruolo trova la strada per l’anonimato. Battuti sul tempo dall’immediatezza del web, desautorati del ruolo di eroi, si rivelano ormai incapaci di collaborare efficacemente per proteggere la propria pupilla.
Il richiamo al remake come pratica ricorsiva della contemporaneità resta purtroppo un’operazione in nuce, mai davvero approfondita. Più singolare è la scelta di un’atmosfera cupa e opprimente, in netto contrasto con la saga precedente, nonostante la permanenza di Peter Deming alla fotografia. L’ambientazione notturna pervade la quasi totalità del film mentre l’unica luce possibile proviene dai flash che preludono alla fama.
Ne deriva un quadro di sfiducia e pessimismo che poco concede all’auto-ironia per sbilanciarsi in un ritratto tetro dell’attualità. Sfortunatamente, abbandonata la consueta leggerezza, emergono le pecche di un impianto orrorifico incerto, ossessionato dalla voglia di stupire ma spogliato della sua forza eversiva.
“Non è una commedia, è un film horror” Replica stizzito Ghostface a una poco divertita Hayden Panettiere. Bè, in un certo senso è proprio questo il problema.