L’ambiguità del dissidente
Lo sfondo blu, il puntino bianco. L’esule Ai Weiwei – cui piace molto mettersi al centro della scena – parte da una traversata via mare, da un barcone zeppo di migranti che approda e scarica la sua merce. Ci sono i volti impauriti e infreddoliti, gli sguardi assenti e smarriti, i passi incerti e malfermi di chi fugge da una patria che ama ma dalla quale è vitale allontanarsi.
Ripetuti più volte nel corso della narrazione, ci sono poi i principi enunciati dalle Nazioni Unite all’inizio del secolo, ovvero “dignità, libertà, uguaglianza e solidarietà”. Nel lungo peregrinare dell’artista cinese – 23 Paesi, parte per il tutto delle 65 milioni di persone costrette a definirsi rifugiati, immigrati, richiedenti asilo – gli esseri umani non sono quasi mai degni né liberi, e neppure trattati in modo paritario da chi li ospita. È lo stridente e forte contrasto fra istanza teorica e ripresa “reale” l’elemento più convincente di Human Flow, instant movie fluviale di Ai Weiwei che ad altezza d’uomo espone cosa succede in Iraq, Grecia, Bangladesh, Malesia, Italia, Turchia, Libano e in decine di altre nazioni. L’intento così descritto è nobile, e il risultato pure… non conoscessimo chi tira le fila dietro la macchina da presa. Se a Venezia 74 il film è stato perlopiù stroncato o affrontato con diffidenza non è (solo) a causa della (indiscutibile) schizofrenia festivaliera: il problema è da sempre l’ambiguità che circonda l’autore, in tutte le sue espressioni. Si tratti di videoarte, fotografia, scultura o – appunto – cinema, sembra sempre lecito domandarsi dove finisca la performance studiata a tavolino e dove inizi l’urgenza della denuncia. O ancora, dove termini l’esibizione della disperazione e dove cominci la testimonianza partecipe. Ai Weiwei, per dimostrare di essere dalla parte dei più deboli, si fa scudo dietro alla sua personale vicenda di perseguitato, minacciato e incarcerato dal governo cinese per il suo attivismo politico e sociale. Si finisce quasi a pensare che Human Flow sia un documentario di Weiwei su Weiwei, tigre in gabbia (come il felino liberato nell’ultima parte del film, metafora della condizione palestinese) che si fa carico degli strazi del mondo ma solo se ben inquadrato dalla cinepresa (“come un Hitchcock capitato guarda caso là dove sbarcano i miserabili”, scrive Luca Beatrice su Film Tv). Ed in effetti è significativo che sui titoli di coda, più dei dati (l’Iraq che ospita 270 mila rifugiati, i profughi che in media passano 26 anni della loro vita lontano da casa) e delle singole storie (il superstite che piange sulle tombe della famiglia morta in mare, il ragazzo senza un braccio che denuncia la quotidianità sotto il regime dell’Isis) restino scolpiti in mente il faccione inutilmente onnipresente e il gigante egocentrismo fisico-artistico di Ai Weiwei.
Human Flow [Id., Cina/Germania 2017] REGIA Ai Weiwei.
SOGGETTO Chin-Chin Yap, Tim Finch, Boris Cheshirkov. FOTOGRAFIA Murat Bay, Christopher Doyle, Lv Hengzhong, Wenhai Huang, Koukoulis Konstantinos, Renaat Lambeets, Dongxu Li, Johannes Waltermann, Ai Weiwei, Ma Yan, Zanbo Zhang, Xie Zhenwei. MUSICHE Karsten Fundal.
Documentario, durata 140 minuti.