Amazing Grace
Dentro e fuori dal palco, Grace Jones. La ragazzina vissuta a Spanish Town in Giamaica, l’icona anarchica degli anni ’80, una star che degusta champagne a colazione, una figlia in déshabillé che ricorda l’infanzia assieme ai parenti, la modella che schiaffeggia in diretta Russell Harty e la compagna che si mette a nudo per il suo grande amore Jean-Paul Goude.
“Sometimes you have to be a high riding bitch, sometimes being a bitch is all woman has to hang on to”, frase catturata da L’ultima eclissi di Taylor Hackford e citata (con refuso) da Grace Jones a metà del biopic, chissà, forse per imprimere su pellicola Super 16 la sua epigrafe. Grace ha bisogno costantemente di fare la stronza, non perché ci creda veramente ma perché il rischio in cui incorre puntualmente è di non essere presa sul serio. Pericolo che l’uomo riesce mediamente ad aggirare con un doppio passo caracollante, ma che per Grace persiste anche dopo 40 anni di carriera, dieci album, un film di James Bond, un ruolo nel cult Conan il distruttore in cui viene eclissata solo dai pettorali del futuro governatore Schwarzenegger e un duetto con Renato Zero nel 1991 sulle note di “Spalle al muro”. Eccolo il meccanismo perverso che minaccia continuamente di aggiungere una s a cult nell’immagine pubblica di Grace, che ti fa ammirare la saga di 007 ma poi ti convince a ridacchiare su Sanremo (anche se di nascosto guardi tutte le puntate). Grace Jones: Bloodlight and Bami, il documentario di Sophie Fiennes, lo mette in scena spogliando la sua unica protagonista e osservandola con un occhio invisibile che si insinua, come un vampiro invitato a entrare, nei luoghi della sua infanzia, negli imprevisti della vita privata, ma che poi non può fare a meno di ricorrere alla grandezza del mezzo per riprenderla a dovere. Per questo il teatro dove interpreta i brani del suo ultimo disco – Hurricane del 2008 – è costruito ex novo: perché il live non basta, perché anche la sua preparazione è un evento gracecentrico. Per questo nessuno capisce cosa siano né la Bloodlight (la luce rossa che si accende in studio di registrazione) né il Bami (focaccia di tapioca giamaicana) ed è obbligato a cercarle su internet. Per questo nel poster la sua figura è (dis)sezionata in modo apparentemente casuale, per dimostrare che ciò che distingue un errore di Photoshop da un’intuizione è la volontà di imporre una visione personale, non necessariamente accomodante.
Grace Jones: Bloodlight and Bami [id., Irlanda/Gran Bretagna 2017] REGIA Sophie Fiennes.
CAST Grace Jones, Jean-Paul Goude, Sly & Robbie.
SOGGETTO Sophie Fiennes. FOTOGRAFIA Remko Schnorr. SUONO Sophie Fiennes.
Documentario, durata 116 minuti.