Ballando con molti sconosciuti
Rimasta sola e vedova nella sua villa sul lago di Como, Madame Christine Sugere ritrova un carnet di ballo di sedici anni prima. Presa dalle spire dei ricordi e della nostalgia, comincia a rintracciare i compagni di quella notte indimenticabile per scoprire che fine abbiano fatto, ma nessuno è all’altezza della memoria e, tra persone scomparse, identità camuffate per sfuggire alla legge, vecchi amici caduti in disgrazia, Christine sarà costretta a fare i conti con la fragilità del presente al confronto del passato.
Se Mark Zuckerberg avesse visto Carnet di ballo, forse non avrebbe creato Facebook. Perché il film di Julien Duvivier si muove sullo stesso crinale che 70 anni dopo portò alla creazione del social network, ovvero andare a scavare nel proprio passato e in quello degli altri per provare a riportarlo in vita, dando vita a una sottile danza della morte.
Fin dall’inizio, sul lago di Como, con i servitori di Madame Christine che parlano italiano in un ambiente quasi spettrale, come fossero figure di un racconto gotico, Duvivier pone il suo film sotto un segno funebre, ora più esplicito, ora più sfumato, come se tutto il racconto fosse quello di una passeggiata tra i fantasmi, un girotondo intorno a ciò che resta dei vivi e dei morti, senza che nulla sia riconducibile a una visione naturalista del cinema, inscritta nel realismo poetico della Francia degli anni ’30 e capace di influenzare i cineasti di molti anni dopo, nonostante gli strali che i giovani critici francesi dei Cahiers du cinéma lanciarono contro il regista. Prendiamo Alain Resnais per esempio (o in chiave ancora più radicale Marguerite Duras): Hiroshima mon amour o L’anno scorso a Marienbad non sarebbero ciò che sono, ovvero testi fondanti un’idea di cinema come riflessione formale d’avanguardia su tempo e memoria, se 30 anni prima Duvivier non avesse testato una serie di stilemi divenuti poi centrali per la messinscena cerebrale di Resnais.
L’uso dei movimenti di macchina (soprattutto le carrellate laterali e le panoramiche), il ralenti, la dissolvenza e il montaggio non descrivono l’azione e non seguono soltanto i personaggi, ma costruiscono una dimensione atmosferica in cui il passato e il presente perdono i confini, la cui soluzione di continuità è dissolta fino a sparire. C’è una sequenza ideale per capire la portata e l’importanza di Carnet di ballo dal punto di vista estetico e stilistico, poco prima della fine: Madame Christine ha trovato Fabien che ora è diventato un affermato parrucchiere di un piccolo centro. L’uomo è famoso, come lo era all’epoca del ballo, per dei giochi di prestigio con le carte e ne fa uno anche alla donna, le carte gli cadono di mano e rivelano il trucco. Lo stacco seguente porta la coppia al ballo comunale della cittadina, per l’uomo “niente è cambiato”, mentre la donna sembra sospesa tra il ricordo del passato che sembra rivivere e il presente degradato: Duvivier sottolinea questa dimensione incerta usando le immagini in modo “modernista”, senza ricorrere a trucchi ottici ma usando la grammatica per cambiare di segno alla realtà. Il “cinema di papà” quindi, a dispetto della sontuosità formale che gli veniva imputata, insegna qualcosa ai figli ribelli delle nouvelle vague.
Ma Carnet di ballo è moderno fin dalla sua struttura seriale, in cui ogni segmento sembra raccontare uno spaccato diverso della Francia di fine anni ’30 e lo descrive con uno stile differente, come se il viaggio dentro le anime di una nazione coincidesse con quello dentro il suo spettacolo, la sua capacità di rappresentazione: dal melodramma patetico alla farsa, dal nero alla commedia, ogni incontro ha il suo tono, le sue inquadrature, il suo ritmo specifico, le sue scelte. Perché in questo film che si confronta con le identità negate, perdute, rimosse o cambiate dei suoi personaggi, anche l’identità cangiante di un paese sembra sfrangiata e svanita. Nei ricordi è intatta, ma di fatto è solo l’ombra di una festa stagliata sul muro.