L’ordinario nello straordinario
Nel 1770 il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart compie insieme al padre un viaggio a Bologna, dove dovrà sostenere un esame all’Accademia dei Filarmonici. I Mozart verranno ospitati dal conte Pallavicini, amico del padre, nella sua villa appena fuori città. Il giovane musicista vivrà in quei giorni, attendendo l’esame decisivo per la sua carriera, i sommovimenti interiori, le sensazioni e la curiosità tipiche di ogni adolescente, legandosi al figlio del suo ospite e vivendo il primo amore; sensazioni appena adombrate dalla consapevolezza del suo talento che lo rende in qualche modo “diverso”.
Il delicato ed emozionante Noi tre segna in qualche modo, insieme al precedente Una gita scolastica, una certa cesura nel cinema di Pupi Avati. Nella prima parte degli anni Ottanta, l’autore bolognese accantonò l’approccio irriverente, poco convenzionale e spesso grottesco di commedie sopra le righe come Bordella (1976) e La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975) o dei terrigni horror “padani” La casa dalle finestre che ridono (1976) e Zeder (1983).
Potrebbe essere interessante approfondire quanto questo mutamento fosse legato al più generale passaggio dall’impegno collettivo e dalla cultura “altra” del decennio precedente al riflusso nel privato e a forme di racconto complessivamente più tradizionali. Il suo cinema, infatti, iniziava a trovare linfa nell’approccio più intimista, minimale e delicato di commedie amare e di racconti elegiaci, incentrati soprattutto sulle reazioni e sui sommovimenti interiori di personaggi alle prese o con la crescita e le varie tappe della vita, o ancora con l’evolversi della Storia colto nei suoi effetti sulla quotidianità e sulle sue abitudini. Elemento, quest’ultimo, che diventerà sempre più centrale e decisivo nella poetica del regista (La via degli angeli, per citare uno dei titoli più interessanti), come notava Sergio Reggiani quando a proposito di Storia di ragazzi e di ragazze (1989) scrisse – cogliendo alla perfezione il punto che le accuse di eccessivo minimalismo non coglievano – come Avati in quel film avesse compiuto “il passo decisivo verso la storia, verso quel punto, cioè, in cui anche i baci e le focacce diventano storia”.
Se film come Regalo di Natale (1986) o Ultimo minuto (1988) avranno un approccio e uno sguardo sulla società duri e disincantati, quasi un’eredità della più tipica commedia all’italiana, il cinema di Avati nel complesso maturava sempre più lo sguardo dell’osservatore gentile tanto quanto acuto, distaccato quanto empatico, riflettendo le atmosfere che, per esempio, in letteratura hanno caratterizzato le poesie e le novelle di Guido Gozzano, non per ultimo per l’attenzione alle “piccole cose” – non necessariamente di cattivo gusto – e alle testimonianze o rimembranze del passato più quotidiano e meno ufficiale. In qualche modo, tutto questo riecheggia in Noi tre. Il film, nella sua delicatezza malinconica, è quindi una tappa essenziale, un’opera emblematica di molti aspetti dell’allora nuova poetica avatiana che si stava consolidando. C’è anche il rapporto sanguigno col territorio emiliano, che man mano diventerà sempre più personaggio, colto nei suoi “tipi” e nei suoi “segni”, che fossero rimembranze del passato o immuni al tempo che scorre e muta. C’è l’eleganza stilistica che fa parlare la fotografia, le musiche e le scenografie senza cadere nella trappola della ricostruzione raffinata, fredda e inerme. C’è soprattutto la capacità di raccontare sentimenti, interiorità e stati d’animo con efficace leggerezza e gentilezza dolceamara, malinconica . Probabilmente la poetica avatiana raggiungerà risultati in assoluto migliori e più centrati negli anni successivi, ma Noi tre funziona per la delicatezza con cui riesce ad emozionare lo spettatore raccontando un personaggio straordinario alle prese con stati d’animo e sentimenti assolutamente comuni.