Sulla nostalgia dell’incanto
Laura ha ottantaquattro anni ed è la sola ancora viva della sua classe delle superiori, la III G del Liceo Galvani di Bologna. La donna ricorda di una gita-premio avvenuta alla vigilia della maturità, nel 1914. Accompagnati dal professore di lettere Carlo Balla e dalla professoressa di disegno, Serena Stanzani, la scolaresca attraversa a piedi l’Appennino alla volta di Firenze. Durante il cammino sopraggiungono momenti indimenticabili.
Una gita scolastica si propone come riflessione ricca e coerente sulla memoria. Il meccanismo narrativo della rievocazione personale è innescato dal ritrovamento di una foto di classe, scattata durante la gita. L’approccio nostalgico della persona che ricorda è legittimato dal fatto che la donna può solo guardare indietro, avendo poco da vivere, e si sofferma, com’è logico, sul suo passato di “incanto”.
Il primo piano della foto di classe, seguita dalla voce narrante della protagonista, ci porta gradualmente a una dimensione collettiva. Il punto di vista nel lungo flashback è, infatti, molteplice e sembra includere il ricordo di chi è deceduto, ovvero il resto della scolaresca. Questa pluralità di prospettive genera una riflessione estesa sulla giovinezza come età dell’incanto che svanisce con il sopraggiungere della maturità – come l’esame che gli studenti dovranno sostenere dopo la gita. Ma è soprattutto il riferimento a una nuova tragica maturità che i giovani italiani, inclusi i personaggi, dovranno affrontare l’anno successivo. La memoria evocata nel film, dunque, racchiude in sé una serie di implicazioni: la nostalgia, la fuggevolezza della felicità, la fine dell’esistenza, il rapporto individuo-collettività e, infine, la relazione con la Storia.
La grande sfida dell’opera è far rientrare questa complessa tematica all’interno di una narrazione semplice e uno stile trasparente, tenendo conto della distanza tra i fatti ricordati e quelli verosimilmente accaduti (pur all’interno di un universo di finzione). Come afferma Giulio Cattivelli la dimensione del ricordo giustifica “le licenze fantastiche, le sfocature, gli anacronismi tipici di Avati che travisa e deforma aspetti di vita italiana ben noti nella storia del costume e sul piano del semplice buonsenso” (Giulio Cattivelli, Libertà, 30 settembre 1983). Ciò a cui Cattivelli allude è una certa lascivia di atteggiamenti e una libertà di comportamento che difficilmente potevano essere accettate nell’Italia del 1914. È altrettanto vero, però, che il film mette a tema proprio i conflitti tra desiderio e vita quotidiana in una società tradizionalista.
La ricerca costante di uno spiraglio di felicità sensuale e di libertà è, infatti, il fulcro del film. La dimensione di scarto dall’ordinario – la gita – ne garantisce la fattibilità. Una possibilità, questa, data in premio proprio alla classe che meglio ha saputo gestire l’ordinarietà della vita scolastica – ovvero quella con la media più alta. Tuttavia, come recita una delle canzonette composte per il film, “solo un momento dura l’incanto, poi dovrai vivere la vita com’è.” Incanto è, ad esempio, il breve periodo in cui la protagonista può amoreggiare con l’innamorato, sebbene – essendo non corrisposta – sia pienamente cosciente che si tratta del tempo di una scampagnata. C’è chi decide di reagire e portare l’incanto nell’esistenza quotidiana, come chi ha vissuto una vita di costante ordinarietà e non accetta di ritornarvi. Emblematico è il caso dei due professori, che contravvengono al buon costume ribellandosi a una vita di ligio celibato o di matrimonio soffocante. O quello dello studente ribelle, vessato da un padre autoritario, che si unisce al gruppo di gitanti in ritardo, e lo abbandona in anticipo, evitando l’appello istituzionale d’inizio e fine gita. Va da sé che chi rifugge alla norma, lo fa nella consapevolezza degli effetti che ne conseguono.