L’amore oltre la morte
Giuseppe (detto Nino) e Caterina (detta Rina) sono sposati da sessantacinque anni e si amano profondamente. Alla morte di Rina, la figlia Elisabetta, nota editrice, assume un ghost writer con il compito di scrivere un romanzo sulla vita dei genitori ascoltando i ricordi del padre, in modo da aiutarlo a superare la perdita della moglie. Lo scrittore accetta il lavoro per ragioni economiche e nella speranza di veder pubblicato il suo romanzo, ma nel tempo, nel raccogliere storie e memorie per il libro, il rapporto tra i due diventa sempre più profondo.
Luoghi, oggetti, ricordi e parole. Dalla morte di Rina, nulla sembra avere più senso per Nino. Percepisce la sua mancanza e non riesce a trovare pace. Se l’erano promesso il giorno del matrimonio (“se mi amerai saremo immortali”): sarebbero stati insieme per sempre. L’amore intenso ed eterno, i giuramenti, la memoria sono questi i protagonisti della parabola poetica, biografica e autobiografica di Giuseppe Sgarbi e Rina Cavallini, genitori di Elisabetta e Vittorio, che Pupi Avati ha portato nel film Lei mi parla ancora, il suo ultimo lavoro.
Il regista ha adattato l’omonimo libro di Giuseppe Sgarbi, dedicato all’amore per sua moglie scomparsa a 89 anni, nel 2015, tre anni prima di lui, ed edito prima da Skira, poi da La nave di Teseo, assieme ad altre sue opere, con l’aggiunta del sottotitolo Memorie edite e inedite di un farmacista. Infatti l’opera è anche la narrazione sulla genesi di un memoriale. Rina è un pensiero continuo per Nino, un fantasma dei tempi andati, del cineforum all’aperto in cui proiettavano Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, delle mani intrecciate per sorreggersi e sorreggere che invecchiano sullo schermo per testimoniare gli anni trascorsi insieme. Avati fa carne l’eterna dicotomia eros e thanatos, scava nell’etimologia poco probabile ma affascinante di amore come a-mors in cui quell’alfa privativa sta ad indicare il superamento della morte e la conseguente immortalità di chi ama. “L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”; in queste parole, donate a Pupi Avati da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, c’è tutta la struggente malinconia di chi resta e tutta la dolce consolazione di chi è consapevole che esiste un luogo in cui quel passato sarà eterno presente. Il regista gioca con gli anni ’50 che lui conosce bene, e con l’oggi per narrare una storia d’altri tempi o forse senza tempo. Si legano i piani di un mondo che nel protagonista convivono: Nino e Rina, all’inizio giovani, innamorati, sposi, genitori, sempre insieme sulle sponde del delta del Po emiliano-romagnolo, poi anziani abitanti di quell’ultima notte prima del distacco definitivo e, infine, lui a fare i conti con l’assenza e con quel ricco e corposo bagaglio, preziosa cronoteca dei giorni che furono. Avati intercetta storie e personaggi, fa combaciare varie dimensioni, mette in comunicazione vivi e morti, sogno e veglia, calcando quelle “soglie” che tanto ama. Lei mi parla ancora è un racconto di un racconto d’amore, una storia di memorie che diventano parole scritte, è un viaggio al termine della vita in cui la perseverante presenza della moglie e il dialogo tra Nino e Rina rendono partecipi di qualcosa di intimo e speciale, un legame strettissimo i cui frammenti custoditi dal marito vengono alla luce. Affinché non si perdano Nino e i suoi ricordi, la figlia Elisabetta pensa ad una cura che lo faccia stare meglio: raccontarsi. A questo serve il ghost writer Amicangelo che riesce, nonostante le differenze, a creare un rapporto con l’uomo e a rendere così esponenzialmente immortale un amore che lo era “solo” per i due protagonisti. Lei mi parla ancora vive di ricordi che si fanno parole, Avati narra il “per sempre” in modo doloroso e nostalgico grazie ad un Renato Pozzetto tenero e perso, aedo di un amoroso memoriale profondamente umano.