Un horror religioso pasticciato e inconcludente
Scienza contro religione, razionalità contro soprannaturale, sono questi i temi alla base di Shelter – Identità paranormali, debutto alla regia di un film americano degli svedesi Måns Mårlind e Björn Stein. Protagonista è Cara Jessup, “medico di scienza e donna di fede”, psichiatra forense alla prese con un difficile e particolare caso di personalità multipla.
Nella mente di Adam, suo giovane paziente, abitano diverse personalità accomunate da un’inquietante coincidenza: sono infatti tutte vittime di brutali omicidi. Cara si accorgerà presto che quello che sembrava solo un interessante caso psichiatrico nasconde in realtà ben altro e dovrà lottare per salvare se stessa e i propri famigliari. Il film, iniziato come un thriller psicologico, devia così nel paranormale e si trasforma in un horror religioso, reazionario e bigotto (la morale tradotta in soldoni è la seguente: “chiunque abbia perso la fede in Dio è destinato ad una morte atroce e alla dannazione eterna”). La sceneggiatura raffazzonata di Michael Cooney che, dopo aver scritto Identità di James Mangold, torna sul tema delle personalità multiple, accumula confusamente troppi temi, suggestioni, generi e registri, senza approfondirne mai nessuno, lasciando così del tutto inesplorate alcune piste potenzialmente interessanti ed eludendo furbescamente i numerosi quesiti proposti, con un finale aperto piuttosto prevedibile. Una regia più incisiva, coraggiosa e “visionaria” avrebbe potuto salvare, anche solo in parte, il film ma la coppia Mårling e Stein opta per uno stile austero, piatto, sottotono e monocorde. I due ripropongono stancamente numerosi cliché e luoghi comuni del genere, citano malamente capolavori e grandi classici inarrivabili come Shining o L’esorcista, provocando nello spettatore una fastidiosa sensazione di déjà vu. A nulla servono gli sforzi attoriali di un cast che, almeno sulla carta, sembrava non scontato e di qualità, alle prese con personaggi poco o per nulla credibili. La psichiatra tormentata di Julianne Moore e il disturbato/posseduto di Jonathan Rhys Meyers rimangono solo deboli figurine appena abbozzate e prive di reale spessore drammatico. A convincere davvero è solo Frances Conroy, ottima caratterista, già pluripremiata per il ruolo di Ruth in Six Feet Under, la serie televisiva di culto creata da Alan Ball. Alla fine l’unico vero mistero ad attanagliare lo spettatore è il motivo per cui un’attrice brava e dotata come la Moore si ostini ad alternare ottimi film d’autore a scadenti prodotti di serie B come Shelter.