Da un grande potere derivano grandi responsabilità
I film di Moretti sembrano sempre definitivi. Bianca completava la tragicità di Michele Apicella (l’alter ego di Moretti), Palombella rossa era la resa dei conti con un’identità politica che stava morendo, Caro diario scriveva la cronaca di una tregua esistenziale significativa e così via, fino a Sogni d’oro e ai primi film.
Solo Aprile e La stanza del figlio erano percorsi di rinascita convinta, prima che Il caimano si sottraesse a ogni idea di rifondazione: l’immedesimazione/repulsione verso Berlusconi terminava su un tono apocalittico, sulla crisi spirituale permanente di un’Italia instabile, anche emotivamente.
Habemus Papam nasce cinque anni dopo: non c’è stato un post-berlusconismo, non c’è stato un ricambio di valori e Il caimano è ancora il film sull’oggi, come una maledizione. Habemus Papam riparte da queste stesse conclusioni, le manipola e le prosegue, non con un grido o con un lamento, ma con un racconto di raccoglimento che parla di responsabilità disattesa e della perdita di punti di riferimento, tanto umile da ricordare l’intensità esistenziale dei drammi di Cechov. Dopo Berlusconi, l’ego di Moretti si confronta ancora una volta con una figura fondamentale, ma stavolta la metafora supera i confini nazionali e diventa universale: il nuovo Papa è in crisi, perché accetta l’incarico di pontefice ma al momento della proclamazione cade in un ripensamento profondo che lo porterà a fuggire dal Vaticano per cercare una risposta.
Habemus Papam è un insieme aperto senza risposte, che si apre con l’incertezza e si conclude com’è cominciato, con la consapevolezza che nessuno può elevarsi a guida. L’aveva predetto già Fellini con Prova d’orchestra, eppure il cinema di Moretti sembra spingere questo avvertimento perfino oltre, rassegnandosi ad una società senza guida. Ma, sotto le spoglie di un’allegoria sociale potente che non dimentica la commedia umana, Habemus Papam è anche l’incontro/scontro tra l’anima presente e passata del cinema di Moretti, impersonate dal mite papa e dal suo psicologo egocentrico (Moretti stesso) che si comporta come un novello Apicella. Forse Habemus Papam esce irrisolto da questo tentativo di conciliazione, forse tiene troppo separati momenti leggeri e dubbi, però è proprio questa libertà di dialogo verso nuove e vecchie direzioni che conduce Moretti a non racchiudere il suo cinema, ad integrare nel suo film anche il teatro e l’amore per la musica. E a scorgere con gli occhi del profeta, come nessun altro italiano.