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Locarno Film Festival

venerdì 12 Agosto, 2011 | di Edoardo Peretti
Locarno Film Festival
Festival
0
Voto autore:

Locarno, 3-13 agosto 2011

Pubblico e privato
Tra le opere più valide presentate nel concorso internazionale di questo sessantaquattresimo Festival del film di Locarno c’è certamente Tanathur (in arabo “dispersione”, nel senso di qualcosa dato dall’alto che si diffonde; il titolo del film è tradotto così in inglese: Last days in Jerusalem).

Il film è diretto dal palestinese Tawfik Abu Wael, e frutto di una coproduzione isreeliana, palestinese e francese, con la partecipazione del festival svizzero. Il progetto del film è stato, infatti, nel 2007 uno dei vincitori dell’”open doors”, l’iniziativa con cui la manifestazione locarnese sostiene ogni anno le cinematografie in via di sviluppo (le contemporanee partecipazioni del film al concorso e del festival alla sua produzione, ha fatto venire in conferenza stampa ad alcuni giornalisti il dubbio di essere di fronte  ad un conflitto d’interessi).


Abu Wael, classe 1976, al suo secondo lungometraggio, è uno dei più promettenti registi mediorientali, già vincitore nel 2004 del premio della Semaine de la Critique a Cannes con il suo esordio Atash; con questo film conferma di avere talento e di voler dare uno sguardo originale, e diverso da quello che si aspettano molti degli osservatori europei, sulla società palestinese. Infatti, la politica e il conflitto sono comparse che rimangono sullo sfondo di una vicenda che racconta il tramonto di una coppia, e che dipinge il ritratto di Nour, giovane donna, appartenente alla borghesia palestinese laica e intellettuale, capricciosa, volubile e fondamentalmente infelice. Nour è sposata con Lyad, chirurgo della stessa estrazione sociale e più vecchio di qualche decennio: la coppia è in procinto di emigrare a Parigi, più per volontà di lei – lui è tutt’altro che convinto -, ma all’ultimo un’emergenza in ospedale rinvia la partenza. Negli ultimi giorni trascorsi a Gerusalemme,  l’incompatibilità e le tensioni sommerse tra i due scoppiano, scrivendo la parola fine sul loro rapporto; tra le strade di Parigi la m.d.p. segue la donna smarrita tra la massa di gente in strada, e un primo piano finale testimonia la presa di consapevolezza della sua solitudine e della sua fragilità.
Tanathur è quindi un intenso ritratto femminile, un film che parte dalle situazioni dei singoli per rappresentare “una società palestinese moderna, che ama la vita, fatta di essere umani; una Palestina che vuole fuggire dalla rappresentazione più comune di popolo chiuso nei campi”, come sostiene l’attrice protagonista Lana Haj Yahia. É la rappresentazione di una fetta di un popolo variegato e complesso, che non può essere limitato al ritratto, certamente vero, ma anche parziale, dato dall’attualità, e di cui questo film, secondo le parole del regista, “ha cercato di dare una rappresentazione che non è una fuga dalla realtà”. L’importanza politica di Tanathur può essere infatti questa: non limitare la visione dei palestinesi ai profughi e internati, o, a seconda delle idee,  ai fondamentalisti o terroristi, ma dipingere un popolo normale, con caratteristiche, abitudini e stati d’animo moderni e simili a quelle delle borghesie occidentali, e che cerca di farsi vedere per quello che è nella sua totalità, parte meno felice compresa.
Nel film sono, infatti, soprattutto i difetti e le inquietudini ad essere messe in scena: la noia, l’insicurezza e la precarietà dei sentimenti ricordano quelli di un certo tipo di cinema borghese europeo. Abu Wael evita il rischio di parlare del proprio ombelico, come più volte è capitato ad autori europei, perchè meno autoreferenziale, e appunto per il discorso “politico” che è stato appena accennato, grazie al quale Tanathur diventa, oltre che un coinvolgente film di “fine amore”, anche una testimonianza di un settore della società palestinese lontano dai riflettori.
Per citare ancora il regista: “Penso che tutto sia politico, anche i rapporti tra le persone. La politica è lì, la uso come ornamento degli eventi.” Insomma, il film fa bene le sue mosse nel gioco di unire pubblico e privato, senza dimenticare che il conflitto è sì una comparsa, ma con cui i protagonisti devono inevitabilmente convivere, facendo parte della quotidianità, e che non mancano piccoli, ma frequenti, e a volte importanti, riferimenti ad esso: per esempio, la vicenda inizia con un controllo di frontiera di soldati israeliani. Tanathur è una delle visioni più interessanti di questo concorso, e lo sguardo del regista appare come uno dei più promettenti e sicuri tra quelli visti. Il film è tra quelli che maggiormente meriterebbero il pardo d’oro, così come meriterebbe il riconoscimento la matura interpretazione di Lana Haj Yahia.

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