L’amore ai tempi della Apple
Tutte le volte che la dimensione meta-letteraria affiora tra le pieghe di una sceneggiatura cinematografica, il mio primo pensiero è: “ancora?”. Tutte le volte che il titolo del film coincide col titolo di una qualunque opera letteraria presente al suo interno e la diegesi non è nient’altro che la trasposizione per immagini dei capitoli di quell’opera, il mio pensiero è: “era proprio necessario?”.
Nel film L’amore dura tre anni, queste domande e molte altre trovano risposta ancor prima che il film inizi. Il regista, Frédéric Beigbeder, è uno scrittore ed editore francese, passato dalla mediocrità alla fama letteraria con la stessa velocità con cui è passato dalla scrivania al set del suo primo film, tratto dal suo ultimo romanzo. Di cosa parla il film? Di uno scrittore francese che passa dalla mediocrità alla fama con la stessa velocità con cui, da amante fedele, diventa un cinico misogino e viceversa. Lo chiameremmo un biopic se non fosse dichiaratamente un film di finzione, ma sarebbe comunque preferibile chiamarlo un agio-pic, visto che lo sguardo compiaciuto del regista/scrittore/personaggio/factotum sembra rivolgersi, da buon Narciso, solo alla sua immagine riflessa nell’acqua, cercando la complicità del pubblico solo attraverso lo sguardo in macchina, meccanismo efficace solo se diretto da mani esperte. Cosa direbbe François Truffaut della mattanza impropria del suo cinema operata in questo film? L’uomo che amava le donne ridotto a puro vaniloquio solipsista, col protagonista Marc (Gaspard Proust) che oscilla fra il maschilismo paterno e il femminismo massonico materno (anch’essa scrittrice, guarda un po’), perdendo tutta la scanzonata bonarietà e l’ironica autocommiserazione del leggendario Bertrand Morane interpretato da Charles Denner. Non drammatizziamo… è solo questione di corna e La signora della porta accanto che affiorano fra i gingilli postmoderni della Apple che abitano la scena quasi più degli attori, a volte ribaltati in stile carnevalesco, altre distillati per conferire un che di aulico ad una storia tristemente normale. I quattrocento colpi, infine e calcando un po’ la mano, da cui Beigbeder prende l’idea del mare come locus risolutivo e liberatorio, epurandone il lirismo e trasformandolo in una terrificante arma del giudizio finale (divino?). Guardando al cinema francese degli ultimi anni possiamo consolarci con la consapevolezza che questa opera sia solo uno degli inevitabili scivoloni in cui sovente incappa chi si crede regista solo per aver scritto un libro o per avere i mezzi economici per tirar su un set. Cosa direbbe Truffaut di tutto questo? Ma, soprattutto, a chi?