Ti racconto una storia
Le grandi storie sono sempre state alla base del cinema classico americano e ne hanno fatto la sua fortuna. E se ultimamente ne vediamo poche, Darren Aronofsky, con The Whale, ce ne regala una d’antologia.
Presentato in concorso alla 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il lavoro del regista newyorkese è un nuovo capitolo, dopo The Wrestler, su un uomo che lotta con un passato con cui non ha fatto ancora pace e attraverso la mutazione e l’imbruttimento del suo corpo cerca di punirsi per i propri sbagli.
Charlie, un memorabile Brendan Fraser, è un docente universitario di letteratura che insegna online, soffre di una grave forma di obesità che lo sta lentamente portando alla morte e così cerca di riallacciare i rapporti con la figlia, abbandonata a 8 anni dopo aver intrapreso una nuova relazione con un uomo. Fin da subito si nota la forte matrice teatrale, il film, infatti, è tratto dall’omonima pièce di Samuel D.Hunter qui anche sceneggiatore, che vede l’entrata in scena dei personaggi quasi come in un palcoscenico fatto di porte e quinte, un montaggio che si basa su molti campi e controcampi e una scrittura con dialoghi serrati e predominanti. Aronofsky dirige con mano delicata senza strafare sulla messinscena, volgendo il suo punto di vista esclusivamente sui personaggi che si muovono negli spazi angusti dell’appartamento in cui si è autorecluso Charlie, e sulle espressioni dei loro volti immortalate in formato 4:3. The Whale è stratificato, pieno di significati che ne fanno uno dei film più importanti della cinematografia americana contemporanea: ci sono la distruzione e il superamento del sogno americano con individui soli e deboli che vengono dimenticati dalla società; la totale incapacità di affrontare con lucidità i sensi di colpa di una nazione che fatica a fare i conti con il passato; la precarietà della provincia; la solitudine dell’ incompresa Generazione Z; le insidie del consumismo capitalista.
Tanti temi racchiusi nel corpo gigante di Charlie che sembra averli assorbiti tutti nutrendosi di essi, sia per punirsi, perché non ha saputo capirli/combattere, che per dimostrare cosa può fare l’emarginazione e l’incapacità di chiedere realmente aiuto. Un dramma che non si preoccupa o vergogna di essere straziante, un neorealismo che fa paura e diventa lo specchio di una condizione sociale da non dimenticare, e, anche se può sembrare esagerato, un tentativo di far tornare al cinema un certo spirito del passato degno dei drammi familiari di Douglas Sirk o delle crude realtà di Frank Capra. Un film sulla salvezza non propria ma delle persone che ci stanno accanto, meravigliosamente simboleggiato dalla sequenza finale dove “la balena” Charlie riemerge dalle acque trovandola forza di alzarsi dall’abisso del suo divano per liberare la figlia che merita una vita migliore. Lo stile di Aronofsky, in cui ancora una volta si ragiona su mutazioni carnali dopo Requiem for a Dream e incubi diurni come in Madre!, diventa ancora più lucida e lancinante senza mostrare troppo ma privilegiando la genuinità della storia. The Whale è un regalo sia per la Settima Arte che per lo spettatore che viene preso per mano con rara trasparenza e onestà intellettuale. Non c’è retorica e cattivo gusto, ma solo l’uomo, i suoi recinti e la voglia di riscatto.