Come le chiocciole
In un mondo presente, all’apparenza distante anni luce da quello in cui siamo ora calati, Rebecca e Tommy decidono di bastarsi a vicenda, due destini che si uniscono indissolubilmente nella buona e nella cattiva sorte.
La conoscenza, la lontananza, il ritrovarsi, poi lasciarsi per sempre: come il moto della marea la vita va e viene, si ritrae lasciando chilometri di spiaggia desolata per poi ritornare e ricreare tutto com’era prima. La disperazione per la perdita della persona amata porta la giovane donna protagonista alla decisione di far crescere dentro di sé una copia del suo amato, una vita replicata, un nuovo Tommy da accudire come un figlio, da amare come un compagno.
Messo da parte il melenso esempio di Ghost, l’uomo non riappare, rinasce da se stesso. Ma vale la pena di rivivere ancora? Il film si interroga sulla questione dell’essere, della perdita compensata, rendendo chiaro fin da subito come il rapporto tra i due protagonisti sia intriso di disuguaglianza rispetto alle altre persone, avvolgendoli in un maestoso silenzio pervasivo e totalizzante, lo spettatore conscio del gesto di Rebecca mentre tutti gli altri rimangono ignoranti. A questo punto, al sogno di una vita felice di nuovo insieme, si contrappone la realtà dove la clonazione umana è una possibilità realizzabile; ma i pregiudizi sibillini e razzisti sono crudeli verso la condizione di essere copia, un batterio da non contrarre evitando qualsiasi tipo di contatto.
La fuga è l’unica soluzione quando il dubbio si insinua nel loro idillio familiare, rinchiudendosi in un non-luogo, una casa alla fine del mondo, contornata dal nulla reso molto bene dalla fotografia, tramite il cielo e il mare incolori, della stessa tonalità anche la terra che, invece di dividerli, li fonde irreparabilmente. Qui il dramma finalmente può esplodere: lei non è nemmeno più una donna, solo quel “grembo” capace di creare una vita, lui non si sente completo, una parte mancante ha lasciato un abisso di significato perduto. È un clone bambino già considerato uomo, frutto dell’egoismo di una donna innamorata, scesa negli inferi come Orfeo alla ricerca della sua amata Euridice, perdendolo per sempre nel momento in cui, insicura, si volta ad accertarsi che lui la stia ancora seguendo.
Non c’è romanticismo nel lavoro di Benedek Fliegauf, è una pellicola amara, cattiva, densa di quel nulla opprimente che schiaccia e mangia l’anima, ritrovato nei dettagli attenti con i quali la visione costruisce il proprio senso.