La dignità della scelta
Con È andato tutto bene, film tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim, il cinema di François Ozon torna a porre l’attenzione sulla volontà ferrea e sulla determinazione che muove i propri personaggi, com’era stato, ad esempio, nel recente Grazie a Dio o in Giovane e bella.
Una storia di scelte e decisioni irrevocabili, difese durante tutto il loro percorso, come quella di André che a 85 anni viene colpito da un ictus e consapevole della propria condizione invalidante chiede alla figlia Emmanuèle, sostenuta dalla sorella, di aiutarlo a morire.
Nonostante la portata estremamente drammatica del racconto, Ozon affronta il complesso tema dell’eutanasia, di grande attualità anche in Italia, con levità e delicatezza, portando il dramma e la commedia a convergere. È in questa ambivalenza, che tende al capovolgimento del senso comune, che risiede l’anima politica e culturale del film. Non sono, infatti, il conflitto morale, il dolore e la paura ad assorbire l’azione, ma la consapevolezza, la rivendicazione di una scelta personale e la conseguente dignità. Tutti atti che, pur conducendo alla morte, esprimono in realtà la grande vitalità di chi li compie. Tuttavia in È andato tutto bene la morte assistita, per quanto centrale nella narrazione, non rappresenta l’unico oggetto dello sguardo del cineasta, che si posa anche sulla reazione della protagonista. Emmanuèle (Sophie Marceau ), dal momento in cui il padre viene ricoverato in ospedale, si trova a rivivere e a ripensare al proprio passato, che si palesa tramite i fantasmi della memoria. Affiorano in particolare i ricordi di un’infanzia dolorosa, contraddistinta dall’atteggiamento scostante del padre. È quindi un passato irrisolto, in cui ha provato un odio verso di lui, e che ora si traduce in un conflitto interiore latente. La richiesta e la determinazione di André la portano a fare i conti con sè stessa e con i propri sentimenti ed è solo accettando e tutelando tale scelta che può riscattare il passato.
A segnare e delimitare il percorso di Emmanuèle sono due lacrime, come avviene in modo analogo in Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi o ancor di più in France di Dumont. La prima, all’inizio, è indotta dal collirio, la seconda invece è reale, liberatoria, risolutiva e riga il volto della protagonista nel bel primo piano conclusivo. Sono due virgole iridescenti che racchiudono il racconto e il processo di intimità, accompagnato dalla lieve regia di Ozon, che segue e sottolinea le traiettorie degli sguardi. È proprio in quegli occhi e in quegli sguardi che si condensano pensieri e legami e che prende vita la determinazione nel compiere scelte di estrema dignità.