Ridi pagliaccio
Il ciccioso Kent, agente immobiliare e bravo padre di famiglia, trova nella soffitta di una delle sue case un vecchio costume da pagliaccio. Indossatolo per far felice il figlio Jack, morbosamente attratto dai clown, non riesce più a toglierselo.
La parrucca multicolor è ancorata al cuoio capelluto, il vestito non si taglia neanche con la sega elettrica, il cerone bianco pare indelebile e strappando a forza il nasone rosso, questo si porta dietro anche un bel pezzo del naso vero. Inoltre puzza. Secondo Karlsson, il vecchio saggio del film (un Peter Stormare agitatissimo, pare sempre strafatto), quel costume in realtà è la pelle di un demone nordico dalle fattezze di un clown, un parassita che muta corpo e mente di chi lo ospita, rendendolo affamato di teneri, piccoli bambini. Offre anche due soluzioni al problema: soddisfare il demone con cinque bambini da sbranare, di modo che se ne vada lasciando Kent indenne, o decapitare Kent, con ovvie conseguenze per il ciccioso agente immobiliare. Mentre sua moglie Meg, incinta, decide quale delle due soluzioni sia moralmente più accettabile, Kent si diletta a staccare dita ai boyscout e smembrare ricchi fighetti figli di papà (che in realtà un po’ se lo meritavano). Clown si salva perché è uno scherzetto e sa perfettamente di esserlo. Colmo di banalità, se non altro le amplifica volutamente, le rigira, ci gioca con affetto. E, strano a dirsi, funziona. Niente di epocale, nessuna novità, nulla per cui urlare al miracolo, solo un piccolo esercizio di stile ben riuscito, che segue la mutazione del suo protagonista. Dapprima parte grottesco, Kent è una maschera comica, un uomo alle prese con la normalità in una situazione anormale: non è facile vendere case vestiti da clown (puzzando peggio di un barbone, per di più). L’aspetto “horror” segue a ruota, esasperando come in una parodia le classiche entrate in campo improvvise e i botti sonori a tradimento tipici del genere, fino all’apice demenziale da Looney Tunes, quando Kent cerca di uccidersi sparandosi in bocca, ma dal cranio gli schizza fuori solo una melma multicolore, o il meraviglioso aggeggio per l’autodecapitazione che costruisce con due seghe circolari, degno di Willie Coyote. Senza poi tirare in ballo la faccenda del cane indemoniato… Con la progressiva perdita di umanità di Kent, anche il film muta, scherza di meno, o meglio, scherza senza calcarci troppo la mano. Gli spaventi a buon mercato lasciano il posto a sequenze più costruite (la caccia al bimbo nella sala giochi), lo splatter aumenta (poco ma buono) e il clima si fa più teso e movimentato, proprio quando ci si cominciava a stufare delle ridicolaggini. Insomma, con Clown, contro ogni aspettativa, ci si diverte, Jon Watts è riuscito a confezionare un film tutt’altro che memorabile, ma sincero e spiritoso.
Clown [id., USA 2014] REGIA Jon Watts.
CAST Andy Powers, Laura Allen, Peter Stormare, Christian Distefano, Chuck Shamata.
SCENEGGIATURA Christopher D. Ford, Jon Watts. FOTOGRAFIA Matthew Santo. MUSICHE Matt Veligdan.
Horror, durata 102 minuti.