Il teatro che volle farsi cinema
“Ogni volta che metto mano a un nuovo film mi par d’essere un principiante. È con l’animo più amichevole che auguro a Pagnol di provare la stessa emozione davanti all’incognita che ancor oggi il cinematografo è per noi”. Parole tratte dall’articolo che René Clair indirizzò a Marcel Pagnol nel 1934, dopo che questi aveva espresso la sua volontà di passare dietro la macchina da presa.
Autore, produttore e sceneggiatore, Pagnol oggi viene ricordato come un uomo di teatro amante del cinema. Quando nel 1931 decide di dedicare le proprie energie al mezzo cinematografico, lo fa adattando una sua piéce teatrale di enorme successo, Marius. Alla regia è però chiamato l’ungherese Alexander Korda: Pagnol non si sente ancora pronto, e rimanda l’esordio al 1933, anno in cui girerà Le Gendre de Monsieur Poirier. Quando Marius esce nelle sale il successo di pubblico è immediato. A pochi anni dall’approdo al sonoro, la storia del barista vedovo alle prese con le vicende amorose ed esistenziali del figlio scapestrato dà al cinema francese una vitalità e una crudezza nuove. Non è dello stesso avviso la critica, che semplicemente non capisce e boccia Marius: il mondo avrebbe dovuto sentirsi ancora orfano del Muto, e avrebbe dovuto rigettare questo “teatro in scatola” spacciato per cinema. Fu François Truffaut a rivalutare negli anni Cinquanta l’opera di Pagnol, scrivendo addirittura “nessuno ha mai notato che il Neorealismo italiano, la biancheria sporca lavata per le stradine di Napoli è nata direttamente non dai film di Carné o di Feyder ma da quelli di Marcel Pagnol, cioè da testi teatrali filmati tali e quindi dai loro autori”. Indubbiamente Marius – assieme agli altri due capitoli della cosiddetta “trilogia marsigliese”, ovvero Fanny e César – si lascia apprezzare proprio in virtù delle sollecitazioni da cui deriva: è figlio del cinema muto e della sua forte gestualità e non nasconde la propria natura teatrale, accumulando sequenze che assomigliano a dei veri e propri “atti”. Con questa impostazione, ad emergere è l’attorialità: gli interpreti – i medesimi che avevano fatto trionfare la piéce sul palcoscenico, su tutti Raimu, Pierre Fresnay e Orane Demazis – giganteggiano, aiutati altresì da una grande linearità del racconto e dai dialoghi, brillanti e scorrevoli. In Fanny, che pur resta un film di personaggi, cambia la tonalità: da commedia anticipatrice del neorealismo rosa a melodramma popolaresco, che apre a riprese in esterna ampliando l’effetto di “presa diretta”. Una tendenza che si consacra definitivamente nel conclusivo César (l’unico diretto da Pagnol) in cui il personaggio divenuto principale – Césariot – parte alla ricerca del padre Marius, ben rappresentata attraverso la metafora del viaggio, con lo sfruttamento scenografico di Marsiglia. A distanza di così tanti anni (più di 80!) risulta dunque evidente come sia la posizione di Clair sul cinema parlato (“mostro terribile, creazione contro natura”) che quella di Pagnol (“il cinema parlante è la nuova forma dell’arte drammatica”) fossero imprecise e sghembe in quanto figlie della propria epoca. Se il cinema è un’Arte maggiore, cosa può guadagnare a scendere a patti con le leggi di un’Arte diversa? Molto, moltissimo. La Storia del Cinema, da quel momento ad oggi, ne è stata la piena dimostrazione: il prestito, lo scambio intertestuale e l’imitazione reciproca fra i diversi mezzi di espressione sono stati, sono e saranno, fattori positivi e fondamentali dello sviluppo artistico.