Speciale 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
VENEZIA 69 – CONCORSO
La costruzione di un amore
Considerare Fill the Void (Lemale et ha’chalal) un film-manifesto della segregazione femminile è un errore da evitare. Da puro strumento per mettere al mondo figli e rispettare il marito questa diventa il fulcro dell’azione, metaforicamente ed effettivamente, essendo la regia affidata a Rama Burshtein, qui debuttante nella sua prima opera di finzione.
Tel Aviv e la sua tradizione incorniciano la vita di Shira, diciottenne pronta al matrimonio, un momento fondamentale visto non solo come unione tra due persone ma come massima aspirazione e dovere di ogni uomo e donna appartenente alla comunità ebrea ortodossa. Quando la sorella maggiore muore di parto, la madre della ragazza non esita a proporla come nuova compagna del cognato Yochay, schiacciata dal pensiero di vedersi portar via il nipote da una donna belga già disposta a sposare l’uomo.
L’amore messo in scena nasce dall’egoismo di una nonna, un affetto quasi fraterno che muta in imbarazzo quando si pensa al futuro, due protagonisti educati al rispetto della religione e al sacrificio in nome del dovere morale e spirituale. La ragazza è pronta a mettere da parte qualsiasi sogno romantico per immolarsi a martire e compiacere tutti. Come lei anche l’uomo si affida al giudizio altrui, accettando schivo un destino già programmato. Tutto ciò è solo un’apparenza: in verità – e qui risiede la forza del film – in loro nasce sempre più forte il desiderio di scoprire l’altro, osservandolo ora con occhi diversi, in guerra dichiarata contro un vuoto che avanza e che potrebbe rivelarsi incolmabile. L’incertezza viene sottolineata dalla costruzione dell’immagine, capace di inserire sempre nel quadro un elemento di immobilità, un oggetto statico che si nota pesante, talmente discreto da risultare sospetto. La rigidità imposta non permette l’espressione della cacofonia di sentimenti che popola l’anima: la sola possibilità è affidarsi agli occhi. Ecco che in quelli di Yochay si scorge la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta quando sente Shira suonare la fisarmonica, mentre il terrore di aver compiuto un errore irreparabile è quello che esprime lo strettissimo primo piano che inquadra il volto della ragazza in semi ombra. Saranno poi gli occhi della sposa, fasciata da metri di velo e vestito bianco a lasciarsi andare in un pianto liberatorio che fa colare il trucco e sorridere di gioia al tempo stesso.
La storia e la sua autrice concorrono alla 69° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, stazionando ai margini dell’arena che contiene la lotta accanita tra titoli più forti e baldanzosi. Silenziosamente trova il modo di esprimere i dilemmi interiori di una cultura, quelli fino a ieri nascosti agli occhi di un mondo inconsapevole, nella speranza che questo si faccia più curioso e attento.