Incerto movimento
“Non posso curare la vecchiaia” dice Mike Milo di fronte a un cane che la padrona vorrebbe vedere in forma come un tempo. Ma Clint Eastwood, che di Milo è l’interprete, sta parlando probabilmente di sé stesso e se la vecchiaia non si può curare, la si mette in scena, la si usa come il regista fa da più di 20 anni a questa parte. Cry Macho, è il nuovo, dimesso capitolo della grande riflessione che il 91enne cineasta sta facendo film dopo film, almeno da Space Cowboys (2000) in poi.
Questo nuovo lavoro vede il suddetto cowboy contemporaneo alle prese con la richiesta del suo capo di andare a recuperare il figlio in Messico, il quale sta prendendo una brutta strada. Il viaggio non sarà facile perché la madre del ragazzo farà di tutto per non lasciarlo andare via.
Scritto da N. Richard Nash, autore del romanzo di partenza, e da Nick Schenk, sceneggiatore di uno dei classici di Eastwood, Gran Torino, Cry Macho sembra ricollegarsi al filone dimesso dei film del regista, a quelle piccole opere volutamente minori, che giocano con toni diversi dal canone eastwoodiano guardando alla commedia, al film familiare ed educativo, sottolineando un amore “disneyano” per gli animali che rimandano a più di un film del regista e attore.
Di sicuro, in Cry Macho si possono ritrovare molti dei difetti relativi all’ultimissimo periodo, partendo da una certa sbrigatività di scrittura che porta il racconto a sfilacciarsi, a incespicare in scelte poco appassionanti o in attimi di debolezza nella progressione, passando per un ormai acclarato mix di misoginia (la figura della madre di Rafo) e narcisismo (Eastwood in barba all’età cavalca, picchia, seduce donne a getto continuo, ma si fa sempre sostituire da controfigure), fino ad arrivare a qualche sciatteria di messinscena che la fotografia di Ben Davis camuffa bene.
Poi però, soprattutto nella seconda parte, il film e il suo autore decidono di fermarsi, di staccarsi dalla drammaturgia e dal movimento. Guardano i bellissimi paesaggi intorno a loro, i luoghi fisici, estetici e morali dell’immaginario che Eastwood ha costruito in 50 anni di regie, ascoltano la chitarra spagnola di Mark Mancina, si dedicano al fulcro umano dei personaggi, alla solidarietà tra gli ultimi e alla preservazione di diversità di spirito e provenienza.
Quando smette di interessarsi a ciò che sta raccontando e si concentra sulle atmosfere e sui sentimenti (bellissima la cena con le nipoti della locandiera), il film si fa perdonare. Magari non tutto, ma molto di sicuro. E così, se anche la vecchiaia non si può curare, si può cercare di non renderla un ostacolo, ma uno spettacolo da guardare, magari col cuore prima che con gli occhi.