Dante: il nuovo capolavoro medievale di Pupi Avati
Giovanni Boccaccio viene incaricato dai Capitani di Or San Michele di portare dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico a Suor Beatrice, figlia di Dante Alighieri, monaca a Ravenna nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Durante il viaggio, Boccaccio incontra alcuni personaggi che hanno conosciuto Dante o che hanno assistito alla sua morte, ripercorrendo così in una serie di flashback la vita del sommo poeta da quando, bambino, aveva perso la madre, fin all’incontro con Beatrice e alla sua prematura scomparsa, l’amicizia con Guido Cavalcanti, l’impegno politico e l’esilio
Dopo 60 opere, sommando film di lungometraggio, fiction seriali e prodotti per la televisione, Pupi Avati continua, incredibilmente, a essere uno degli autori più riconoscibili e insieme più fecondi del panorama italiano: il suo è un cinema ancestrale e libero, ai limiti dell’anarchia.
E questo per come riesce a svicolarsi da ogni convenzione stilistica e ogni moda rimanendo fedele a sé stesso ma insieme alzando sempre più il suo sguardo verso orizzonti nuovi e territori emotivi mai visti. Dante ne è l’esempio più folgorante: un film, e un personaggio, che fanno tremare le vene e i polsi per la difficoltà di rappresentazione. Eppure, questo agguerrito signore di 83 anni, trova in un suo stesso romanzo (L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante) una chiave di lettura interessante che gli dà modo di usciredalle strettoie della biografia e allargare le maglie dell’agiografia. Nel suo film, il protagonista è Boccaccio nel suo viaggio verso Beatrice, la figlia del sommo poeta, che a Ravenna continua a soffrire per l’esilio imposto al padre. Questa declinazione impervia ma fascinosa restituisce un film oscuro, inquietante, con un autore che senza nessun tipo di legaccio commerciale torna ai suoi film più inquieti e dipinge uno dei periodi storici a lui più congeniali, il Medioevo, con tutta la sporcizia e il fetore umano che lo caratterizza. Dante è un film che riprende lo stupore del Magnificat, le ombre de L’arcano incantatore, la furia de I cavalieri che fecero l’impresa: e su tutto, la morbida malinconia del ricordo, segno distintivo del cinema avatiano, che viene da lontano e da vicino, ovvero dall’ossessione esistenziale di un regista che ha sempre scavato nel ricordo e nel passato per (non) riuscire a fare pace con il presente. Il risultato è un’opera insolitamente cruda, viva nel suo travolgersi nel fango e nella miseria di un volgo due/trecentesco che sopravvive tra la peste e la guerra, con gli occhi perennemente rivolti all’oltretomba e alla fame: tutto però filtrato dall’ostinato amore di Boccaccio per l’arte dantesca e dai versi luminosi del più grande poeta italiano. Sincero e partecipato, appassionato e ambizioso, il film trasuda gioia e sofferenza, si immerge e si intride senza paura degli umori letteralmente pestilenziali di un’epoca ricostruita con precisione millimetrica e accademica.
Pupi Avati sa come delineare i personaggi, così lontani e così vicini, ritrova un’ispirazione mai persa e corona il sogno di girare un film su Dante Alighieri seguendo – anche lui come Boccaccio – un pellegrinaggio fisico e spirituale verso l’obiettivo splendente che è la divinità dell’esistenza umana. I ritratti storici sono fedeli quanto basta: Bonifacio VIII e Guido Cavalcanti, Gemma Donati e Simone de’ Bardi, Beatrice Portinari e Giovanni Boccaccio, fino a Dante che è centro propulsore di ogni cosa e personaggio quasi a latere, che si fa gentilmente da parte permettendo allo spettatore di scrutare nel passato. Con l’ombra della morte che sovrasta tutto e tutti, con il misticismo misterico di una messa in scena perturbante, Avati mette a fuoco l’oggetto del suo studio e del suo amore e costruisce un film immenso, che si fa piccolo nelle dimensioni e grandissimo nei risultati.