Lux Æterna
Quello di Sam Mendes è un cinema borghese e illustrativo e fin dagli esordi il cineasta britannico ha iniziato a demolire il sogno americano all’interno della sua stessa gabbia dorata, facendo di American Beauty (1999) una sorta di manifesto del cinema statunitense di fine secolo scorso (pregi e difetti compresi).
Ma la sua critica all’American way of life ha perso quasi subito il sarcasmo derisorio contenuto nel suo primo film, facendosi sempre più blanda come in Revolutionary Road (2008), per poi riguadagnare un pochino di ironia camp nel successivo American Life (2010), chiusura perfetta di questa ideale trilogia dedicata alla morte del sogno americano.
Dopo aver sfoderato il suo lato più barocco con due capitoli bondiani (Skyfall e Spectre) e attraversato i codici del war movie con 1917 (2019), Mendes torna a raccontare i fallimenti della middle class, ma questa volta spostandosi nella nativa Inghilterra. Empire of Light è ambientato nella cittadina portuale di Margate (contea del Kent) e racconta quanto accade tra il 1980 e il 1981 attorno al cinema Empire seguendo le vicende del personale che vi lavora all’interno, una conventicola di emarginati tra cui spicca l’emotivamente instabile Hilary (Olivia Colman) che intreccerà i propri sentimenti con quelli del giovane angloafricano Stephen (Michael Ward). Mendes punta tutto sulla delicatezza dei sentimenti che nascono da questo incontro, sprecando allegorie fin troppo evidenti (il piccione ferito, i castelli di sabbia in riva al mare), per sottolineare la solitudine dei suoi protagonisti e la loro illusione di poter costruire insieme una vita felice. La fotografia omogenea e desaturata di Roger Daekins irradia i personaggi solitari che lavorano all’Empire (sotto l’egida di un viscido Colin Firth), con una luce che esplode nei colori pirotecnici illuminando il primo bacio rubato da Hilary a Stephen, per poi farsi tetro riverbero notturno di abat-jour, nel rivelare crudelmente il lato più feroce e instabile della donna al suo giovane amico. Luce che si vorrebbe eterna proiezione di felicità mentre Hilary assiste, con le lacrime agli occhi, alla visione di Oltre il giardino. Dopo il magnifico The Fabelmans, anche Mendes tenta di usare il cinema e la sua luce interiore come scandaglio umano, ma non raggiunge mai la profondità del film di Spielberg. Empire of Light tende alla fiamma mèlo restando tenue e controllata fiammella sentimentale, cercando di evocare l’ombra del thatcherismo e la violenza razzista degli skinheads ma riducendoli solamente a frasi fatte e cliché, inserite all’interno di una storia d’amore già abbastanza convenzionale e raccontata in maniera scolastica. Olivia Colman conferma la sua bravura con un’interpretazione intensa e straziante, anche se ogni tanto si abbandona alla maniera, ma quello che maggiormente resta a fine visione è quel senso di libertà che muove la coppia protagonista verso una ricerca di sé, un girovagare en plein air che profuma di free cinema e che riconcilia con la vita e scalda il cuore.
L’ultima immagine mostra Stephen che si allontana verso il suo futuro, camminando per un viale alberato, postilla sirkiana che accenna una scintilla mèlo.