SPECIALE TELEFILM ANNI ’90
La visione del bagnino da vicino
Immaginate di veder trasposte al cinema tutte le mitologiche serie tv (quando si chiamavano ancora telefilm) che imperversavano nella tv generalista degli anni ’90: Willy, il principe di Bel-Air, Beverly Hills 90210, La tata, Friends, Xena…
Superato lo scoglio della lesa maestà, le accettereste solo se tenessero fede alla loro “filosofia” iniziale: puro intrattenimento, con un linguaggio lineare/banale, pochissima introspezione psicologica e una messinscena camp priva di pretese. Sembra di viaggiare indietro nel tempo di centinaia di anni, eppure è passata poco più di una generazione da quella tipologia di prodotto, che magari arrivava in Italia con gran ritardo e che occupava i pomeriggi di spettatori ancora ignari di cosa significassero i concetti di streaming e binge watching. Come dimostrano i mezzi flop di Starsky & Hutch e 21 Jump Street, creare nuove schiere di adepti senza offendere il vecchio fandom è impresa ardua, quasi chirurgica. Tra le maglie del nuovo scanzonato Baywatch scorgiamo uno sforzo non da poco: occorre aggiornarsi al consumismo culturale odierno tenendo sempre a mente che è bene non intaccare la “sacralità” originaria. Lo scollamento com’è inevitabile si avverte, e la soluzione scelta dal regista Seth Gordon (quello di Come ammazzare il capo… e vivere felici) e dai suoi sceneggiatori è quella della continua ed esplicitata auto-parodia. Accade così che, mentre da un lato il nuovo Mitch di Dwayne Johnson assomiglia più ad un supereroe che ad un bagnino (“Quello non è Superman, è un semplice bagnino vestito in spandex”, “… come Superman!”), dall’altro si strizza l’occhio all’ingenuità del capostipite presentando una improbabile antagonista indiana e un incendio in alto mare con un pessimo – come all’epoca – utilizzo della CGI (espediente che è stato frainteso: c’è chi ha seriamente giudicato il film alla luce della sua computer grafica “più finta che in una produzione Asylum”); mentre si spinge sull’acceleratore dei riferimenti scatologici e sulle gag fisiche (i testicoli incastrati nel lettino), dall’altro vengono riproposte le iconiche corse al ralenti e le tenere soluzioni amorose a cui è logicamente impossibile credere. A tenere unite le parti, come dicevamo, ci sono i continui inside jokes, le continue auto-citazioni. I protagonisti sanno di recitare in un remake, ridono di loro stessi e dello stereotipo che devono incarnare. È una trovata furba, senza ombra di dubbio, ma intelligente: l’unico modo per stare al passo con la fallacia irresistibile di quel Baywatch è prendersi sanamente per i fondelli, sfiorando spesso il ridicolo ma palesando come indiscutibile “manifesto di intenti” la propria disarmante mancanza di cinismo, la propria lampante sincerità (che fa rima con ovvietà). Esattamente come un telefilm degli anni ’90.
Baywatch [Id., USA 2017] REGIA Seth Gordon.
CAST Dwayne Johnson, Zac Efron, Alexandra Daddario, Kelly Rohrbach, Jon Bass.
SCENEGGIATURA Damian Shannon, Mark Swift. FOTOGRAFIA Eric Steelberg. MUSICHE Christopher Lennertz.
Commedia/Azione, durata 116 minuti.
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