Lo spirito Marvel, le qualità di Taika Waititi
Thor: Love & Thunder è il quarto capitolo della Marvel Cinematic Universe (MCU) dedicato al biondo dio del tuono. Una saga dentro la saga che era partita con un mezzo passo falso: le origini a fumetti del tonante, firmate da Stan Lee e Jack Kirby, restituivano un’opera ispirata agli dei nordici, gli Asi, con gli influssi tipici da soap opera che erano la geniale intuizione di Lee (i celebri supereroi con superproblemi). Chiaramente, quello che veniva fuori era un dramma in costume che echeggiava Shakespeare e la magnificenza dei suoi drammi: probabilmente per questo i Marvel Studios, per produrre il primo Thor, nel 2011, pensarono bene di chiamare Kenneth Branagh. Chi meglio di lui poteva sposare la grandeur drammatica scespiriana con il gusto pop mainstream?
Ma qualcosa non andò nel verso giusto, perché nonostante il film in sé per sé non fosse affatto male, per il seguito, nel 2013, bisognava smussare gli angoli di una letteratura troppo “alta”. Fu così chiamato Alan Tayor, prima, Palookaville, dopo Terminator Genisys, in mezzo tanta Tv come I Soprano, Sex & The City, Oz. Ma Taylor diresse Thor The Dark World probabilmente con la mano sinistra e il risultato fu peggiore del precedente: un vorrei ma non posso continuo, senza pathos né cervello.
È per questo che, con Thor, la Marvel ha ben pensato di voltare drasticamente pagina, e da Thor Ragnarok ha trovato la quadratura del cerchio: un Thor chiassoso, fracassone, bullo, insomma un simpatico cialtrone immerso in un universo dai cromatismi fluo, una trama dai contorni slabbrati che riprendeva alcuni topoi della Marvel Comics, un’ironia intelligente che spesso e volentieri sconfinava nel grottesco. Taika Waititi aveva fatto centro. Ovvio che il passo successivo fosse affidato ancora al regista neozelandese, e che gli ingredienti si ritrovino identici ma, con Thor Love &Thunder, Waititi li aumenta al quadrato e conferma le qualità dell’autore giusto al posto giusto, che riesce a reinventare un personaggio imprimendo la sua firma e confermando i Marvel Studios come una sorta di factory, che quando si affida alle persone adatte, è una delle poche realtà cinematografiche mainstream in grado di riprendere i generi e i codici narrativi e declinarli secondo le sensibilità moderne. E ci riesce facendo coincidere lo sguardo del cinema con quello del pubblico, ritrovando nello stesso tempo il senso stesso della sala: il rito collettivo.
Il ventinovesimo film della casa di Kevin Feige è purissima Marvel: un’insostenibile leggerezza che impregna un percorso narrativo profondamente pop (nel senso wharoliano di pop art) e che non dimentica la matrice letteraria. La trama parte infatti da una run a fumetti ben precisa, quella di Jason Aaron durata ben sette anni (e disegnata, per lo più, dal superbo illustratore Esad Ribic e dal virtuoso della tavola da disegno Russel Dauterman), che prende un personaggio storico dell’affresco di Thor, ovvero la dottoressa ex infermiera Jane Foster, e la reinventa, con un cancro incurabile e con l’opportunità di impugnare il classico martello di Thor, Mjolnir, e diventare lei stessa la dea del tuono. Ad un prezzo altissimo. Thor: Love & Thunder non dimentica la tragedia che è alla base del concetto di supereroe di Stan Lee, solo ne stempera la drammaticità elettrificando i colori e alzando i toni, arrivando a sequenze totalmente folli e battute a tratti sbracate. Tutto perfettamente in equilibrio grazie agi influssi del fumetto (Aaron, come detto, ma anche Walter Simonson) ma soprattutto ad un villain straordinario, interpretato da un attore straordinario: Gorr, il macellatore di dei – inventato dallo scrittore texano – ha il volto e la voce di Christian Bale. Era prevedibile che come suo solito il protagonista di L’uomo senza sonno avrebbe dato il massimo, con un character eccessivo come Gorr: ma il suo lavoro è di cesello, e se ascoltato in lingua originale ancora più incredibile. Il suo macellatore è terrificante, patetico, dolce e spaventoso, senza mai contraddirsi, anzi crescendo di scena in scena e arrivando a vette sublimi, riuscendo a dare il tono a tutto il film. Non per niente, una delle parti più belle di Thor Love & Thunder è proprio quella dove è completo protagonista e i suoi colori – grigio, nero e bianco – sono i colori della sequenza.
Ultimo, ma non ultimo, la sottotraccia che lega il lungometraggio a quella lunga, totemica saga che è l’MCU (che è arrivato alla Fase Quattro, prima della Mutliverse Saga): Thor Love & Thunder è un film che parla – anche – di famiglia. La Fase Tre, conclusiva della Infinity Saga, si chiudeva con il dittico Avengers: Infinity War & Endgame, un film diviso in due che distruggeva il mondo finora costruito, e lo faceva con un trauma, per gli eroi e per gli spettatori. Un trauma e diverse perdite e lutti da gestire, che lasciavano un vuoto emotivo. Per questo, la citata Fase Quattro ha un tema comune che forse non salta subito agli occhi: la famiglia, il bisogno, la necessità di ritrovare un centro emotivo, un rifugio, qualcuno nelle cui braccia ripararsi in tempi di tempesta. Da WandaVision (serial germinale, che parla del dolore di una moglie e di una madre) ad Hawkeye (il bisogno di un uomo di essere padre e mentore e di una ragazza di essere figlia e allieva), da Ms. Marvel a Shang-Chi (conoscere la propria origine per conoscere sé stessi), da Black Widow ad Eternals (gestire la propria disfunzionalità per capire il senso di appartenenza), la strada arriva fino a Love & Thunder, dove è proprio Gorr il motore al centro della storia. Con la sua disperata ricerca di vendetta per colmare il vuoto lasciato dalla morte della figlia e della moglie, e la rabbia contro un mondo e delle divinità cieche difronte all’amore puro e durissimo che lega un padre a una figlia. Guai a chi lo tocca.