Ambizioni barbariche
Ammettiamolo pure. L’idea di un Conan senza Schwarzenegger ha fatto storcere più di un naso, quasi evocando lo spettro di un (im)possibile Rambo senza Stallone.
Fatta salva la disparità numerica dei sequel – ma Rambo “era” Stallone già dopo il primo – è innegabile che il cimmero cinematografico coincida, nell’immaginario collettivo, con l’icona dell’ex Mr. Olympia. Se aggiungiamo che il film capostipite portava la firma di Jhon Milius, autore di piglio anarcoide ed etica destrorsa ma bardo di eccezione per quanto riguarda storie di riscatti e affermazione personale, qualche perplessità di fronte al nuovo Conan the Barbarian è più che lecita.
D’altra parte, la soggezione verso i modelli è sconosciuta a Marcus Nispel, già convinto regista di remake ambiziosi (Non aprite quella porta, 2003; Venerdì 13, 2009). Né soffrono di scrupoli – e forse dovrebbero – Thomas D. Donnelly e Joshua Oppenheimer, sceneggiatori dell’orrido Dylan Dog (Munroe, 2010), recidivi di disinvolta sciatteria. La sceneggiatura del Conan di Milius era scritta a quattro mani, niente meno che con Oliver Stone, e spaziava trasversalmente nell’opera di Robert E. Howard per narrare il percorso individuale dell’eroe verso un nobile destino. Milius costruiva attorno al protagonista un’atmosfera sospesa di leggenda, in quel connubio di forza e magia, dell’uomo e degli oggetti- ereditati, meritati, donati- che era poi l’essenza dell’universo descritto da Howard. Ne derivava un altrove senza tempo, pregno di suggestioni multiculturali, in cui un Conan, magari meno “barbaro” di quello letterario, perché più introverso e meditativo, imparava onore e vendetta, sostenuto dalla relazione fisica e mi(s)tica tra uomo e natura, tanto cara alla poetica del regista.
Che dire, dunque, del coraggioso epigono? Innanzitutto che il cambio di attore non è, purtroppo, il problema maggiore. Jason Momoa (Baywatch, Stargate Atlantis, Game of Thrones) cerca in Conan il trampolino che rese celebre lo stesso Schwarzenegger e il fisico erculeo non gli fa certo difetto. Il Conan di Nispel è inoltre più simile all’originale, feroce, belluino e poco propenso alla riflessione. Quel che gli manca è un minimo di profondità che scongiuri la piattezza del personaggio. Nonostante la mimica più generosa non c’è traccia, in lui, della malinconia sofferta del guerriero di Milius. L’appello alla libertà hit et nunc contro la civiltà dei “principi e dei preti” resta soltanto una frase isolata, persa nella cacofonia di un film rocambolesco e dal montaggio fortemente discontinuo. Le rapide scene di azione, elargite a profusione, non colmano le falle di un racconto stancamente convenzionale, tanto più che l’ostinato ricorso al 3D ne penalizza la definizione rendendole appena comprensibili. Alla trascuratezza riservata al protagonista si somma la scissione manichea delle figure femminili che tra la virgo indifesa (Rachel Nichols) e la megera perversa (Rose McGowan) fanno rimpiangere la presenza di una donna intensa e completa come la Valeria (Sandahl Bergman) del primo film o la Zula (Grace Jones) del sequel di R. Fleischer (Conan il distruttore, 1984). Se c’è un merito, in questo Conan, non è quindi nell’estetica da videoclip, in cui Nispel è maestro, né nella colonna sonora, imparagonabile alle musiche di Basil Poledouris. Piuttosto, è l’aver stimolato non poche riflessioni critiche come, ad esempio, quella sul ritorno in auge di un eroe muscolare dopo l’ondata degli eroi “flessibili”. Potremmo aggiungere il ricorrere dell’eroe battezzato nel sangue dei propri cari (da Batman a Wolverine, da Magneto a Conan, passando per la serialità televisiva di Dexter o di Camelot), dalle radici compromesse e con una madre(patria?) ferita o sanguinante, che ne scatena la necessità di vendetta e di superamento. Nel riecheggiare della sfiducia istituzionale degli anni Ottanta, nell’indistinta nostalgia di una purezza originaria, contro la stanchezza di una civiltà depressa e agonizzante, si coglie allora l’opportunità di rinverdire l’eroe cimmerio. Ma l’intento non può sopperire alle mancanze della messa in scena. “Sono io, suo cronista, il solo che può raccontarvi la sua saga”, affermava l’io narrante del 1982. Forse non aveva tutti i torti.