ANTEPRIMA
Nelle viscere dell’anima
Quando le labbra si spaccano nell’urto contro i denti in seguito a un colpo ricevuto, la bocca si impasta di un sapore che sa di sangue vivo su materia lacerata: una poltiglia di “ruggine e ossa” che brucia fino in gola e, devastante, irrompe fin dentro l’anima.
Procede con la stessa incisività De rouille et d’os, nuovo film di Jacques Audiard presentato in anteprima mondiale all’ultimo Festival di Cannes. La visione si oscura con l’irruzione improvvisa della tragedia che incupisce gli eventi comprimendoli in una vertigine di inesprimibile sofferenza, per poi ripartire dal fondo del dolore alla ricerca di scenari alternativi, sconosciuti universi di impensata felicità. Due individui opposti, abitanti raminghi e insoddisfatti di mondi lontani, (apparentemente) inconciliabili: Audiard li fa incontrare sulle montagne russe dell’emotività, non prima di essersi assicurato che abbiano pagato il prezzo del biglietto. Altissimo. Estremo. Per lui, Ali, girovago precario con figlio a carico, il conto si salda con la moneta corrente dell’esclusione, condizione meschina determinata dalla dilagante crisi economica, spietata con i più deboli; per lei, Stéphanie, sexy istruttrice di orche marine dal piglio narciso e sprezzante, lo scotto del disincanto è il risveglio atroce dopo la perdita, irreversibile, di autonomia e femminilità. Maestro nel mettere sotto assedio l’equilibrio instabile che sottende il caos di esistenze vacillanti e “compresse” – da Sulle mie labbra a Il Profeta passando per Tutti i battiti del mio cuore – il cineasta francese impregna di una fisicità disperante il percorso di rinascita di una sirena mutilata. Insiste sulla rappresentazione – cruda, esplicita – di quei bellissimi arti spazzati via da un banale imprevisto sul lavoro; asciuga la verbosità del parlato guadagnando spazio alla raffigurazione degli istinti, qui ritrovati come intreccio di pulsioni oppositive, come alternanza di slanci luminosi e cupe implosioni. La macchina da presa si inabissa nello sguardo pietrificato di Stéphanie/Marion Cotillard, ne accarezza le fitte dell’animo esaltandone il desiderio di arrendevolezza. Poi, una scintilla di rivelazione. La vita preferisce un suo simile agli ingannevoli sollievi millantati dalla Signora Morte; torna a desiderare, a sperare, a volere altra vita. La trova in Ali (Matthias Schoenaerts), incrociato prima dell’incidente, ricercato subito dopo. Da sempre emarginato in un mondo che non ha fatto altro che prenderlo a pugni, Ali è l’immagine rovesciata di Stéphanie, metafora vivente della potenza trasformativa racchiusa nella spontaneità del gesto. Attraverso il loro legame, Audiard arricchisce la narrazione di un’intensità visiva in bilico continuo tra disturbante e meraviglioso: a far da ponte tra questi due estremi, la graduale percezione di sé intesa come espressione libera delle più intime pulsioni. Oltre un pietismo di circostanza, Ali e Stéphanie si amano di una passione immediata e animalesca, limpida nel suo essere scevra da inquinanti strategie ricattatorie; e si sostengono in un gioco al massacro fatto di ossa fracassate e rivalsa sulla vita, uniti nello spazio vitale dell’accettazione reciproca. I sensi tornano a vibrare, sboccia una femminilità “altra” che annienta le inibizioni generate dalla menomazione fisica, il rapporto si salda oltre ogni volontà di controllo. Nel tempo di una nuova, feroce, caduta sarà Ali ad appoggiarsi a Stéphanie, segnando il passaggio definitivo dall’istinto al sentimento, dal corpo alla persona. De rouille et d’os è “niente di più” che l’amore secondo Audiard: un groviglio irrisolvibile di materia e spirito, lacerante nelle strette dei suoi nodi, bellissimo nell’intreccio unificante dei suoi elementi.