Archivio Aperto, 24 ottobre – 6 dicembre 2020
La guerra di Perlov
È davvero un’opera-mondo Diary di David Perlov. Archivio Aperto ha offerto a tutti l’occasione di ammirare questo capolavoro del cinema diaristico, nell’edizione in streaming gratuito del festival bolognese organizzato da Home Movies e ancora in corso. Difficile riassumere l’importanza di questo film di cinque ore e mezza, suddiviso in sei capitoli che seguono la vita del regista, della sua famiglia, a partire dalla moglie Mira e dalle figlie gemelle Yael e Naomi, e dei suoi numerosi amici, i tanti viaggi, ma anche la storia di una nazione, Israele, nel decennio che va dal 1973 al 1983.
Diary, vero modello anticipatore per tutti i cineasti della scena documentaristica e sperimentale che hanno fatto della narrazione autobiografica per immagini il proprio credo poetico, è innanzitutto il progetto personale di un regista che non riesce a sopprimere il bisogno di realizzare, con passione e metodo, qualcosa di diverso sia dai film su commissione e dalle convenzioni produttive del cinema israeliano dell’epoca, sia dalle forme tradizionali del documentario, come linguaggio internazionale: «Voglio filmare da solo e per me stesso», la sfida di Perlov.
I dieci anni che Diary attraversa si aprono con la guerra del Kippur (a cui nel 2000 Amos Gitai ha dedicato uno dei suoi film più riusciti), che vede contrapposti Israele da una parte, Egitto e Siria dall’altra. Nel 1982, Israele s’impegna in un altro conflitto, la guerra del Libano. Per quanto maggiormente interessato a mostrare al pubblico la poesia quotidiana di un’esistenza tutto sommato ordinaria, la sua, Perlov non può esimersi dal fare riferimento ai due eventi bellici. Così, inserisce nel montaggio di Diary anche immagini di repertorio tratte da telegiornali israeliani, scovate prevalentemente nell’archivio tv di Gerusalemme. La conseguenza è che il valore controculturale e di controinformazione del film di Perlov diventa ancora più evidente, nel confronto tutto interno all’opera tra la propaganda del governo israeliano e le riprese “libere”, in prima persona, delle manifestazioni di protesta a Tel Aviv, effettuate dal regista con la sua 16mm, sulla scia dello slogan del maggio ’68 “prenez une caméra et descendez dans la rue”.
Non è solo una questione di immagini. Anche l’utilizzo originalissimo della voce over da parte di Perlov, un vero e proprio io lirico dal tono distaccato ma dalle mille sfumature espressive, fa la differenza tra il racconto non omologato della guerra e delle sue conseguenze sulla società israeliana firmato da Perlov e i banali servizi giornalistici televisivi. Nel quarto capitolo di Diary, in uno dei momenti più forti di rottura metalinguistica della continuità narrativa del film, la voce di Perlov, con l’ironia amara che contraddistingue la personalità del regista, critica direttamente la partigianeria di un giornalista che commenta l’inquadratura di alcuni soldati, apparentemente giunti in soccorso di una donna “nemica”: «Le danno un po’ di acqua e la chiami umanità?».
La guerra, spiega Perlov, è sempre off screen nei telegiornali, ma di sicuro non perché i reporter abbiano un’etica rigorosa della visione. La guerra, infatti, è l’indicibile per definizione, Perlov sa che non può raccontarla senza costringersi prima, durante e dopo a un’autoriflessione appunto etica e a un’estetica dalla severa moralità, un’estetica fondata sulla ricerca, forse vana nel risultato ma necessaria nell’intento, di una verità profonda (un’idea di cinema che Perlov condivide con un altro grande intellettuale ebreo, Claude Lanzmann, al cui capodopera Shoah collabora come montatrice non accreditata Yael). Il cinema di Perlov non offre risposte preconfezionate e a buon mercato, pone solo domande. Alla gente che gli chiede «Perché questa guerra?», il regista può solo replicare «Non so cosa dire».
Diary 1973-1983 [Diary, Israele 1983] REGIA David Perlov. FOTOGRAFIA David Perlov, Gadi Danzig, Joseph Zicherman, Yahin Hirsch. MONTAGGIO Jacques Ehrlich, Noga Darevski, Yosef Greenfeld, Levi Zini, Yael Perlov, Shalev Vines, Boaz Leon, Dan Arav. MUSICHE Shem Tov Levi. Documentario/Sperimentale, durata 330 minuti.