Un inchino allo Stregone Supremo
Mentre Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) è tormentato dagli incubi, una ragazza dal bizzarro nome America Chavez (Xochitl Gomez), dotata di incontrollabili poteri, semina il caos piombando nel centro di New York da un’altra dimensione. Ha qualcosa a che fare con le sue visioni oniriche? E soprattutto, chi è che la sta inseguendo?
Per una volta un film Marvel non tiene col fiato sospeso solo le schiere di fan del cinecomic, ma anche i cinefili più oltranzisti e scettici. Il motivo è presto detto: Doctor Strange nel Multiverso della Follia segna infatti il ritorno alla regia di Sam Raimi, fermo da ben nove anni dopo lo sfortunato Il grande e potente Oz (2013).
Cineasta capace di marchiare a fuoco tre decenni, Raimi è forse (dopo Stan Lee) l’artista a cui il Marvel Cinematic Universe deve di più per le intuizioni visive e l’ampiezza di sguardo della sua seminale trilogia Spider-Man, recentemente omaggiata in No Way Home. Ma tutte le riverenze del mondo non bastano a cancellare il dubbio: può un visionario rimanere sé stesso in un contesto rigido e formulaico come l’MCU? La risposta è positiva purché si sia disposti a non inseguire a tutti i costi la dicotomia fra Autore e contesto produttivo. Raimi e il team capeggiato da Kevin Feige sanno di servire l’uno all’altro, e trovano materia congeniale allo sposalizio (non per nulla il film si apre su un matrimonio) nel tema della moltiplicazione “multiversale”. Per Marvel significa la definitiva autocelebrazione del proprio statuto seriale e transmediale, nonché l’ennesima bordata tematica al concetto di soggettività; per Raimi è l’occasione di rispolverare il suo repertorio pan-demoniaco di sdoppiamenti fisici e psichici. Il risultato è il miglior compromesso possibile. Un film pienamente addentro agli schemi narrativi e produttivi Marvel, certo. Ma nessun Marvel aveva mai avuto una regia simile. La piattezza visiva dell’MCU è detonata dall’interno. Mentre omaggia la Carrie di De Palma – quel makeup! – Raimi si fa invitare al ballo di fine anno e poi fa esplodere tutto. Il superhero si fa horror, nella sua rivisitazione ghignante e cartoonesca che guarda a Fulci quanto a Chuck Jones. E la “pluralità” si riversa dal piano tematico a quello della messa in scena. Le superfici si frantumano, gli ambienti parlano, suonano, si increspano. Strange è finalmente strange, e il Marvel fan medio sussulta sulla poltroncina senza neppure capire cosa l’ha colpito.
È sovversione? Sì, ma cercata e guidata dall’interno, funzionale al contesto senza che questo ne annulli necessariamente la forza anarchica. Non è la prima volta che in casa Marvel si praticano “iniezioni controllate di autorialità”. Ma un conto sono i pur bravissimi Gunn, Russo, Waititi, altro è ritrovarsi per le mani un Maestro. Feige lo sa bene, si affida al suo flusso di coscienza e guarda compiaciuto il Multiverso (idea affascinante ma finora sterile nella pratica) prendere vita un fotogramma dopo l’altro. L’evento è servito, la Fase Quattro dell’MCU ingrana finalmente la marcia superiore. Produttori e pubblico possono nuovamente inchinarsi al talento demiurgico, multi-generazionale, incommensurabile di uno dei più grandi registi americani viventi. Mentre speriamo in un ritorno definitivo, incrociamo le dita perchè Marvel faccia tesoro di questa masterclass di regia, andando un po’ più spesso in cerca di quel senso di meraviglia che – a dispetto del nome – è da sempre il grande assente nei suoi film.