Dal trionfo alla prigionia
A introdurre il film, nei primissimi istanti, sono loghi e scritte dorate e cariche di gioielli, che lampeggiano e si schiudono anticipando le immagini di Elvis. È subito un assaggio di ciò che vedremo e una chiave d’accesso, ma anche e prima di tutto un biglietto da visita su cui campeggia il nome di Baz Luhrmann. Così come con l’apertura del sipario in Moulin Rouge!, si spalancano le porte del suo show che, nel bene e nel male, è ormai impresso nell’immaginario: un cinema barocco, sfarzoso, teso all’eccesso e solcato dallo stupore. Uno stile che si confà proprio alla figura di Elvis Presley, tappa naturale del viaggio nella controcultura intrapreso da Luhrmann, sin dai bohémien di fine Ottocento di Moulin Rouge!.
Emblematico è soprattutto il punto di vista narrativo, che è quello del manager di Elvis, il Colonnello Tom Parker. Una figura misteriosa, mefistofelica e grottesca (in certi momenti ricorda quasi il Pinguino di Batman), un imbonitore proveniente dal circo che conosce ogni meccanismo del successo e dello spettacolo.
Fu lui a costruire e plasmare la carriera del cantante di Tupelo, trasformando il suo talento in un’attrazione e in un prodotto da vendere. Ed è lui a rivolgersi direttamente allo spettatore e a raccontare la storia del sodalizio che li ha uniti e della parabola del Re del Rock &Roll. Il film si mostra quindi come un racconto dentro un racconto, pura affabulazione in cui lo spettacolo di Luhrmann e quello di Parker talvolta coincidono e talvolta divergono, senza mai allontanarsi dall’intensità delle luci dei riflettori e dal percorso di miti e leggende che si rincorrono all’interno di tendoni da circo. Un tourbillon che però non è fine a sè stesso, ma piuttosto un caos controllato che riflette l’anima degli Stati Uniti. Il gioco di filtri, riflessi e racconti concatenati ha inizio con la scalata al successo di Elvis, il bianco con i movimenti e il ritmo dei neri. Un’esplosione che Luhrmann mostra attingendo a piene mani dai suoi canoni stilistici e dal suo cinema pirotecnico, fatto di un montaggio convulso, effetti caleidoscopici e immagini che si frantumano, scompongono e rilanciano costantemente.
Inoltre, con il consueto anacronismo musicale, il regista australiano tenta di trasmettere la modernità, la trasgressione e il contesto provocatorio di certi ambienti musicali e sociali, sull’onda della contaminazione attuata dallo stesso Elvis Presley. Il protagonista è raffigurato come un supereroe che sogna di volare sempre più in alto e che viene posseduto dal proprio superpotere musicale quando per la prima volta si imbatte nella musica afroamericana, nella carnalità e sensualità del blues e nella spiritualità del gospel; corpo e anima. Ma Elvis è un film che evolve di pari passo con il suo protagonista e dopo la prima parte cambia traiettoria e si inabissa sempre più nel dramma. D’altronde, quella di Presley è una delle storie più tragiche del recente passato ed è proprio questo aspetto che interessa maggiormente Luhrmann, la parabola di un uomo spinto a volare verso il Sole e ritrovatosi poi all’interno di un surrogato, una gabbia lucente e dorata che si è stretta spietatamente attorno a lui, tarpandogli le ali e prosciugandogli i sogni. Ne emerge il ritratto di una persona profondamente sola, corrosa da una costante ricerca di amore e dal tentativo di sostituire il forte legame che aveva con la madre. Una leggenda che rimase imprigionata all’interno di essa.