Dentro l’inferno
Nell’alienante routine del Sonderkommando, gruppi di prigionieri sono costretti ad assistere i nazisti, collaborando per gassare e cremare gli altri, in attesa della propria ora. Nel cadavere di un bambino Saul crede di riconoscere il figlio e tenta di tutto per dargli degna sepoltura.
È stato definito uno sguardo completamente inedito sulla Shoah, quello che l’esordiente ungherese László Nemes mette in scena con Il figlio di Saul. Nello specifico, uno sguardo in 4:3, chiuso sul volto di Saul Auslander e sul poco spazio che occupa il suo corpo dentro l’orrore smisurato di Auschwitz. La macchina da presa in semi-soggettiva gli arranca addosso sul volto terreo, sulla fissità dello sguardo di vetro e le fughe ristrette del suo campo visivo. Tutto il resto è relegato allo sfondo, una realtà distante, spesso sfocata, inevitabilmente mutila e parziale. Abitata da suoni inauditi, ordini immondi e grida strazianti. Ma anche da compiti e gerarchie di un microcosmo di devastazione. Spogliare i prigionieri per le docce di gas, spalare la cenere dei forni crematori, pulire il sangue e trascinare “i pezzi”, come i tedeschi chiamano i cadaveri delle vittime dello sterminio. Nemes sceglie un formato che nega la visione, la costringe al fuori campo di un rifiuto necessario, all’infilmabile che sfugge all’estetica: quella intesa come percezione di chi deve sopravvivere, prima ancora che come stile di rappresentazione. “Poiché tale è la natura umana”, scriveva Primo Levi, “che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro ai maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale e ci permette di vivere in campo”. Il lager mostrato da Nemes è dunque il lager di un individuo, perché si è soli nella non-vita del campo, e “già morti”, come sostiene Saul. Ma nella massa indistinta dei corpi, di chi muore e di chi sopravvive, ne riconosce uno come il proprio figlio, gli assegna una storia e un’identità. E sottrarlo al macello che annienta e smembra, all’autopsia che riduce in pezzi diventa il motore di una missione che spinge Saul all’insubordinazione. La ricerca di un rabbino per seppellire il ragazzo si trasforma nell’unica ragione di esistere, per la quale sfidare le regole e rischiare la pelle. Non si tratta più di eroismo o coraggio, concetti lontani di un mondo dissolto, ma di accidenti necessari al conseguimento di un obiettivo, un’esigenza irriducibile, più forte della disperazione. L’atto deliberato di un uomo nell’inferno, il cui unico motivo per vivere è restituire la dignità alla morte di un bambino.
Il figlio di Saul [Saul fia, Ungheria 2015] REGIA László Nemes.
CAST Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Kamil Dobrowolski.
SCENEGGIATURA László Nemes, Clara Royer. FOTOGRAFIA Mátyás Erdély. MUSICHE László Melis.
Drammatico, durata 107 minuti.
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