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In questo numero

El castillo de la pureza (1973)

sabato 5 Novembre, 2016 | di Filippo Zoratti
El castillo de la pureza (1973)
Viennale
4
Voto autore:

54. Viennale – Vienna International Film Festival, 20 ottobre – 2 novembre 2016, Vienna

Mister Violence
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino.

Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: El castillo de la pureza ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, Dogtooth di Yorgos Lanthimos e Miss Violence di Alexandros Avranas. Un’informazione che ha iniziato a diffondersi sotterranea dal 2011, anno della candidatura all’Oscar come Miglior Film Straniero di Dogtooth, mediacritica_el_castillo_de_la_pureza_290nel momento in cui il cineasta Arturo Ripstein ha fatto pervenire a Lanthimos il polemico messaggio “I hope we’ll win” (“Spero che vinceremo”). Questo perché la Grecia non ha mai ammesso di essersi ispirata al film di Ripstein, negando persino ogni possibile influenza. Eppure El castillo de la pureza ha fatto la storia recente del cinema messicano, scuotendo all’epoca l’opinione pubblica in virtù della sua aderenza a fatti realmente accaduti. Nonostante ciò – e nonostante il regista sia stato uno dei più brillanti collaboratori di Buñuel – di questo classico del New Mexican Cinema si sono poi curiosamente perse le tracce. All’interno della retrospettiva “A Second Life” promossa dalla Viennale (di cui vale la pena parlare anche a festival finito, visto che proseguirà fino al 30 novembre), la programmazione di El castillo è stata un vero colpo di scena, incastrata fra rifacimenti di più facile inquadramento (i due Mostri di Düsseldorf di Lang e Losey; l’auto-remake hitchcockiano di L’uomo che sapeva troppo) e influenze anomale già sdoganate (Kill Bill volume 1 e Lady Snowblood; Per un pugno di dollari e La sfida del samurai). Al netto di alcune significative differenze – in Kynodontas la cultura non esiste, mentre nell’opera di Ripstein i ragazzi studiano Goethe e Ellis; il “peccato originale” dell’incesto da un lato rientra nell’abominevole normalità di famiglia, mentre dall’altro è il turning point che fa impazzire il papà-padrone – e di una diversa metaforizzazione (l’opera messicana crea un forte parallelo fra gli abitanti della casa e i topi avvelenati nelle gabbie del laboratorio casalingo), entrambe le pellicole arrivano alla medesima grottesca conclusione: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del mondo esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

El castillo de la pureza [Id., Messico 1973] REGIA Arturo Ripstein.
CAST Claudio Brook, Rita Macedo, Arturo Beristáin, Diana Bracho.
SCENEGGIATURA Arturo Ripstein, José Emilio Pacheco. FOTOGRAFIA Alex Phillips. MUSICHE Joaquín Gutiérrez Heras.
Drammatico, durata 110 minuti.

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