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Appunti dalla 32ª edizione del Trieste Film Festival

sabato 6 Febbraio, 2021 | di Redazione Mediacritica
Appunti dalla 32ª edizione del Trieste Film Festival
Festival
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32° Trieste Film Festival, 21-30 gennaio 2021

Eastern Promises
Di fronte a un festival “tematico”, lo spettatore potrebbe pensare a una chiusura, a una vetrina di film un po’ tutti simili, soprattutto se il festival gioca su una limitazione spaziale molto definita come quella del Trieste Film Festival, che guarda esclusivamente ai film dell’Europa centro-orientale. Giunto alla 32ª edizione, per ovvie ragioni in streaming, il festival diretto da Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo dimostra invece una notevole apertura di sguardi a superare i confini geografici, segno soprattutto dell’ecletticità del cinema proveniente da quell’area. 

Si prendano i due film più apprezzati dell’edizione: il georgiano Beginning di Dea Kulumbegashvili (che ha vinto il premio della giuria, dopo aver trionfato a San Sebastián) è un’opera prima rigorosissima, densa di trovate formali che portano il contenuto emotivo del film all’implosione.

Father del regista serbo Srdan Golubovic (premiato con il premio del pubblico, come alla Berlinale 2020) è invece un deciso, solido e appassionante film di denuncia, personale e politico, in cui la regia segue da vicino il racconto e il suo personaggio. Due tipi di cinema d’autore lontani nelle premesse e nei risultati, come distanti sono gli approcci, anch’essi squisitamente autoriali, con cui due registi esperti, il russo Andrej Smirnov e il lituano Sharunas Bartas, raccontano precisi momenti della storia novecentesca dei propri Paesi, rispettivamente nel bianco e nero post-nouvelle vague dell’appassionato A Frenchman e nella maestria luministica dell’ostico In the Dusk.

Una ricchezza eterogenea testimoniata anche dalle varie sezioni create per raccogliere tipi e formati filmici poco paragonabili, riuscendo a far convivere – e con la visione in streaming forse è anche più facile – progetti disparati e ugualmente stimolanti. Pensiamo per esempio, nella sezione “Art&Sound”, ad Accidental Luxuriance of the Translucent Watery Rebus, animazione sperimentale diretta da Dalibor Baric (uno dei numerosi frutti della fantastica scuola dell’animazione croata), che guarda a numi come Godard o Brakhage per evocare in modo misterico la memoria del cinema come veicolo per sondare la profondità umana, la sua essenza onirica; oppure al film di un altro regista serbo, My Morning Laughter di Marko Djordjevic, storia di emancipazione personale di un ragazzo attraverso l’assurdo e il bizzarro, che il regista sa ricondurre a una personale estetica dello spazio filmico, della posizione dei personaggi all’interno dell’inquadratura; o ancora a Once Upon a Youth di Ivan Ramljak, il racconto documentario di una gioventù vissuta e perduta attraverso foto e video d’epoca, con le parole dei “sopravvissuti” a fare da filo conduttore.

Se ufficialmente il cinema rumeno è considerato l’avanguardia europea (e la presenza del torrenziale Malmkrog di Cristi Puiu nel festival triestino lo conferma, surclassando i meno entusiasmanti Uppercase Print di Radu Jude e The Campaign di Marian Crisan), i paesi dell’area centro-orientale affrontano i loro demoni moltiplicando le occasioni di riflessione e confronto artistico. Potrebbe essere un esempio per quelle cinematografie nazionali che invece si sono sedute sugli allori.

Emanuele Rauco e Francesco Grieco

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