La mia fattoria per un cavallo!
Chi rinuncerebbe a tutto per uno splendido purosangue non è il Riccardo III di Shakespeare, ma il burbero Ted, fittavolo nelle campagne inglesi, che si aggiudica l’animale a un’asta per una cifra da capogiro.
La famiglia rischia di finire sul lastrico e il fattore deve vendere Joey, così lo ha battezzato il figlio Albert, a un ufficiale dell’esercito, diretto in Francia per combattere i tedeschi all’alba della Grande Guerra. Albert però, che ama Joey come un fratello, non demorderà, nella speranza di ritrovarlo un giorno sul campo di battaglia.
War Horse, tratto dal romanzo omonimo di Michael Morpurgo, è un concentrato di metafore in salsa antimilitarista: Joey è insieme modello di coraggio e promessa di salvezza per la gioventù inglese destinata al massacro, ma anche portatore di sventura, oggetto del desiderio che condanna chi ne prende le redini. Stando alle premesse del film, il cavallo, con disappunto dei cinofili, dovrebbe essere il migliore amico dell’uomo, ma appare in definitiva come un incrocio tra Furia e Rambo, una creatura mandata dal cielo che lo surclassa per bontà, fibra muscolare e forza d’animo, lo aiuta a esprimere il suo lato migliore e quasi si fa martire per affratellare i nemici.
Il cinema di Spielberg è da sempre un cinema popolare dai buoni sentimenti, che strizza l’occhio al pubblico e dichiara candidamente, scongiurando così il parossismo, la sua vena retorica. Il suo ultimo film tradisce però la bontà dello spunto tematico, avvilito da un racconto che risulta piatto nel suo disinteresse programmatico per la tensione e il dramma. La narrazione, scandita dal passamano di un foulard (ricordate la lettera in Salvate il soldato Ryan?), procede a ogni incrocio per la via più scontata, mentre i dialoghi, saturi di frasi a effetto, tra cuori spezzati e giornate fatali, esplicitano puntualmente il sottotesto, vanificando la rappresentazione di ogni conflittualità. Fanno il resto le performance fragili di buona parte del cast, che contrastano con la disinvoltura degli animali di fronte alla telecamera; su di esse grava per giunta un doppiaggio italiano non troppo lusinghiero, che tocca vette parodistiche con la voce dei soldati tedeschi. Restano le colline verdeggianti del Devon, le scene in trincea e le musiche del solito John Williams: troppo poco per salvare un film ad alto tasso glicemico che, imperdonabile per un artigiano delle emozioni come Spielberg, non scalda veramente il cuore e accompagna all’uscita uno spettatore sereno e insoddisfatto.
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