Il corpo e il volto
“Vicino” recita il titolo. Vicino alle emozioni dei personaggi e agli attori con la macchina da presa, fin dalla prima scena, bellissima: un pomeriggio in camera da letto a parlare, scambiarsi confidenze e affetto, dormire accanto.
Comincia con questo ritratto dolce e intimo di due ragazzini Close, l’opera seconda di Lukas Dhont dopo l’acclamato Girl, un ritratto che mette subito lo spettatore in condizioni di entrare nella dimensione emotiva del film e di seguirne l’andamento delicato e struggente.
I due ragazzini sono Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav de WaeleI), compagni di scuola fin da bambini, praticamente inseparabili. Qualcosa si rompe quando gli amici pensano che stiano insieme, Léo soprattutto si allontana un po’ e questa crepa, apparentemente piccola, cambierà le loro vite per sempre. Quello scritto da Dhont con Angelo Tijssens è un sussurrato melodramma di formazione, in cui la costruzione dello stile del film e del racconto vanno a braccetto per riflettere su quel difficilissimo equilibrio precario che è l’adolescenza. Come visto, il titolo è già una dichiarazione di stile e poetica: Dhont e il direttore della fotografia Frank van Den Eeden cercano di stare più vicini possibile ai personaggi senza invadere i loro spazi, senza rendere morboso lo sguardo, ma cercando di cogliere il significato di quella vicinanza. Tutto il film è costruito su questo concetto di distanza ravvicinata, anche nell’incedere del racconto: dapprima mostra i due ragazzi affiancati, come se fossero un corpo solo, poi ne racconta il distacco e per finire si concentra sulla solitudine di uno dei due e ragiona, in termini di spazi e regia proprio sulla presenza o l’assenza, su come il protagonista cerchi di riempire i vuoti, per esempio attraverso gli stimoli fisici che suppliscono alla mancanza, o alla poca capacità tipica dell’adolescenza, di comunicazione ed espressione verbale.
Questo lavoro sulla distanza dall’obiettivo e tra gli attori (straordinari i due ragazzi, non da meno Émilie Dequenne, madre di Rémi) permette a Dhont di scrivere per immagini, di costruire una tensione che nasce quasi dal nulla, di far comunicare i corpi e i volti – lontani dalla mascolinità convenzionale, così come dalle logiche queer, quasi androgini o semplicemente in fieri – più che le parole, permettendo loro di mostrarsi vivi e fragili. Tolto il finale forse un po’ troppo giusto, come fosse apparecchiato per la reazione del pubblico, Close è un film fatto da elementi piccoli o tenuti fuori campo, che deve la sua forte presa emotiva non all’eccesso sentimentale, ma al suo contrario, al lavoro preciso e personale fatto con gli attori, sugli attori, tramite le immagini. Pensate e vissute in prima persona, da chi scrive e dirige, da chi interpreta, da chi guarda.