Fantasia sottomarina
Già verso la metà degli anni Novanta, l’impero Disney aveva iniziato a muovere i primi passi verso il colossale, e per certi versi donchisciottesco, progetto di rifare i propri classici animati con attori in carne e ossa. Sono gli anni dei piatti e mediocri Mowgli – Il libro della giungla di Stephen Sommers e La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera di Stephen Herek, pallide versioni con trucco e parrucco come unico effetto speciale.
Solo negli anni Dieci del nuovo secolo inizia l’autentica scommessa dei remake disneyani, mescolando le tecniche della computer grafica con i corpi degli interpreti, quasi una tendenza inversa a quella sfruttata per il primo classico animato del 1937, Biancaneve, quando, con il sistema del rotoscopio, si ricalcava la figura umana per renderla cartoon.
La new wave dei classici live action presenta sostanzialmente due limiti: il primo è la produzione forsennata (quasi fordista) nello sfornarli in tempo record, uno dopo l’altro (gli antesignani animati uscivano una volta all’anno); il secondo consiste in una tendenza forzatamente politically correct, affiancata a una moralizzazione dei villain. Seguendo queste direttive, spesso la diegesi del racconto resta ingabbiata all’interno di prestabiliti parametri edulcorati senza quasi mai osare il minimo sberleffo ironico, al contrario di quanto succedeva ai primordi dell’impero di papà Walt che presentava, ad esempio, Mickey Mouse come figura burlesca e iconoclasta, solo successivamente ammorbidita. Ma veniamo a La sirenetta del 1989, 28° classico brillantemente scritto e diretto da John Musker e Ron Clements, un’animazione che ha aperto una nuova epoca e creato il modello dell’eroina disneyana ribelle, insofferente alle regole e all’ambiente in cui vive. La versione live action diretta da Rob Marshall, è una rilettura filologicamente aderente al proprio referente animato (quasi fotogramma per fotogramma), una fantasia sottomarina che coniuga mirabilmente l’estetica coreografica da musical hollywoodiano con l’archetipo dell’animazione classica. Certo Rob Marshall non è Bob Fosse (Chicago e Nine stanno lì a dimostrarlo), ma sul versante del prodotto di intrattenimento per famiglie ha saputo cogliere e restituire quello stupore taumaturgico del primo sguardo infantile verso l’incantato regno animato (Il ritorno di Mary Poppins da questo punto di vista è straordinario).
La sirenetta (2023) oltre a riprodurre fedelmente i mirabolanti numeri musicali (da Come vorrei a In fondo al mar fino alla romantica Baciala), con l’ausilio di una computer grafica che può rivaleggiare persino con quella di Avatar, mette in campo una serie di raffinati stratagemmi linguistici che fanno da contrappunto tra la fine di una sequenza e l’inizio di un’altra. Basta uno spruzzo d’acqua per sciogliere i nodi narrativi di una sequenza per poi passare alla successiva, oppure il ciondolo luminoso che in dissolvenza diventa un sole al tramonto. Sono questi piccoli dettagli che fanno la differenza e che La sirenetta di Rob Marshall ingloba al suo interno (come aveva fatto anche La bella e la bestia di Bill Condon) dimostrando una certa attenzione alla grammatica del cinema, senza limitarsi alla pura dimensione evasiva richiesta dal prodotto.
Inoltre a un certo punto del film c’è un’altra trovata assai efficace che riguarda una rielaborazione molto particolare del monologo interiore. Ariel tramutata in umana dalla strega del mare, a cui ha dovuto in cambio donare la propria voce, si trova a palazzo del principe Eric e pur non potendo parlare canta dentro di sé, creando uno sdoppiamento tra voce e immagine molto interessante. Ovvio che questi sono elementi che non toccano da vicino il grande pubblico, specie quello infantile, e difatti La sirenetta funziona molto bene anche utilizzando un approccio visivo più istintuale, grazie a interpreti azzeccati come la sbarazzina Ariel di Halle Bailey, il fiero tritone di Javier Bardem e soprattutto la spiritosamente subdola e tentacolare Ursula di Melissa McCarthy.
Sgombrando il campo dalle polemiche che hanno alimentato il suo battage pubblicitario, La sirenetta guizza felice con libero spirito di contaminazione tra classico e tocchi di contemporaneità, e nonostante il messaggio multietnico sia un po’ troppo esibito non ne inficia l’esito finale.