Genere e generi
Movimenti carsici sotto la corazza del cinema italiano, che da (ormai troppi) anni staziona imperturbabile nei territori immobili della commedia insopportabilmente frivola: qualcosa si muove sotterraneo, e ha i contorni del cinema di genere (oltre a quelli dell’impegno di Sollima, Taviani, Vicari).
Alessandro Piva, autore di Lacapagira e Mio cognato, porta in sala Henry, rimaneggiato e rimontato dopo il passaggio al Torino Film Festival 2010 (dove vinse il premio del pubblico).
Roma, morte di un “commesso” spacciatore: non c’è mistero da risolvere, l’assassinio ci viene mostrato e anche raccontato dall’omicida. C’è l’increspatura nell’acqua che allarga cerchi concentrici sempre più vasti, e scie di sangue sempre più copioso. La morte di Spillo è il tassello che dà il via a un effetto domino, trascina e fa inciampare un’umanità variamente assortita di tossici, criminali, poliziotti. Tutti a rincorrere Henry (l’eroina, la droga), per dipendenza, per sfida o per denaro. Piva tira i fili del genere, noir dagli echi anni ’70, solo vagamente pulp (immancabile il richiamo tarantiniano, l’inquadratura dall’interno del bagagliaio, e pure un po’ il Soderbergh di Out of Sight), forse anche debitore di Winding Refn, lontano dagli eccessi di Guy Ritchie e dalla sua fotografia satura su tessuto adrenalinico. Filma in digitale, un po’ più sporco di Mio cognato, un po’ più freddo di quel che si vorrebbe. Con un sottofondo sempre di commedia, innestata, tramite dialoghi e scenette surreali, da protagonisti costantemente sopra le righe, intenti a interpretare la maschera di se stessi, guardie o ladri che siano. Così, quando si confessano diretti in camera, su sfondo nero da teatro dell’assurdo, si resta spiazzati, come ad ascoltare pirandelliani personaggi in cerca di spettatore. Il ritmo c’è, la sceneggiatura è altalenante, gli attori (da Riondino alla Crescentini, da Gioè a Sassanelli) talvolta un po’ spaesati, ma sempre convinti. Quel che sembra riuscire meglio, a Piva, è, al solito, la morfologia dei paesaggi urbani, i momenti in cui la storia si distende nella contemplazione esplorativa delle nostre periferie, non-luoghi in bilico tra aspetto fantascientifico e stretta attualità. Pure Henry appare un po’ in bilico: non gliene frega niente di fare cinema sociale (anche se il ritratto del sottobosco criminale fatto di tossici, spacciatori e camorristi probabilmente non si discosta troppo dalla verità, e solleva inevitabili riflessioni), nel suo incrociar di storie si affaccia il fantasma del “già visto” (e, purtroppo, “visto meglio”). Ma l’intento è indubbiamente sincero, la competenza del mezzo filmico presente, il desiderio di scuotere il panorama asfittico del nostro cinema anche. Non crediate che sia poco, e sicuramente è da premiare, andando a rintracciare una delle poche copie distribuite. Fosse anche solo per scrutare una differenza: tra la Roma notturna di Henry e quella patinata dei troppi muccinismi, tra onesto genere e posticcia autorialità, e anche per non dare ragione al boss Santagata quando dice che “il cinema è morto, sarà solo fiction”.