Il cinema delle prigioni interiori
Ma’ è rinchiusa nella stanza da sette anni. Il suo carceriere, Old Nick, viene a trovarla ogni notte per portarle viveri e accoppiarsi con lei. Il frutto dell’unione non consenziente è Jack, un ragazzino di cinque anni che non ha mai visto il mondo esterno.
Room potrebbe essere un manuale per tutti i film che attaccano a narrare in medias res: non vediamo il rapimento di Ma’ né sappiamo chi lei fosse prima di incontrare Old Nick. Il film comincia a cose già fatte e cattura la nostra attenzione dandoci briciole d’informazioni poco per volta. Ma’ è da tempo rassegnata a vivere in cattività e Jack è un bimbo vispo con degli amici immaginari: la stanza non è poi così male (meglio così, visto che vi passeremo buona parte del film) e Ma’ non è disposta a rischiare “tutto” per vedere di nuovo il mondo esterno. D’altronde, quando è stata rinchiusa era poco più che una bambina e adesso non può fare altro che proteggere suo figlio dallo stimolo a fuggire, che sarebbe punito con violenza da Old Nick, tenendolo all’oscuro del mondo di fuori. Allo spazio sconfinato e al caos della realtà esterna è dedicata (Attenzione! Spoiler!) la seconda parte del film. Dopo una risoluzione, del tutto anti-drammatica, del conflitto violento con Old Nick, cominceranno i veri problemi: riabituarsi alla vita fuori dalla stanza, dialogare coi media, rivedere i genitori che ti ricordano ancora come una ragazzina e dare una forte virata all’educazione del giovane Jack. Lenny Abrahamson firma un film intimista, dove il fatto di cronaca nera sembra un pretesto per approfondire gli sconvolgimenti emotivi e le complicazioni della vita in cattività. Il tema è studiato su due soggetti molto azzeccati: una ragazza che vive il passaggio all’età adulta rinchiusa nella stanza, riportando non poche conseguenze psicologiche, e un ragazzino che vi è nato ed è ancora troppo piccolo per sentire il bisogno di avere più spazio. Una regia che resta quasi sempre attaccata ai volti dei due protagonisti non può prescindere dalla qualità delle interpretazioni attoriali e Room convince soprattutto per le qualità di Brie Larson (premiata con l’Oscar per la sua interpretazione) e del giovane Jacob Tremblay, cavalli di razza che lavorano sulle più lievi sfumature espressive del volto, che mantengono il registro minimale nonostante l’incipit da film horror. Non vi è quindi bisogno di una regia forte giacché la sceneggiatura è efficace e i due attori sono decisamente in grado di catturare lo sguardo. Lenny Abrahamson rimane sul semplice (ma realizzato ad arte) e crea un’ottima alchimia tra filmico e messinscena; con Room, il regista irlandese porta a casa un altro ottimo film e, soprattutto, fa conoscere il proprio nome ben oltre il circuito dell’indie e della cinefilia.
Room [id., USA 2015] REGIA Lenny Abrahamson.
CAST Brie Larson, Jacob Tremblay, Sean Bridgers, Wendy Crewson, William H. Macy.
SCENEGGIATURA Emma Donoghue. FOTOGRAFIA Danny Cohen. MUSICHE Stephen Rennicks.
Drammatico, durata 118 minuti.
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