Identità frustrate
Nel novembre 2010, il sito WikiLeaks rese pubblici più di 200.000 documenti riservati contenenti informazioni sull’attività diplomatica delle autorità statunitensi.
Il regista svedese Daniel Espinosa parte da questo spunto per realizzare un action movie in bilico su tre fronti: film di spionaggio, western metropolitano e thriller psicologico, che mette a tema la confusione identitaria degli anni duemila e la sfiducia, attualissima, del cittadino nelle istituzioni. Tutto ruota attorno a Tobin Frost, ex agente della CIA che, dopo anni di latitanza, viene catturato e rinchiuso sotto interrogatorio in una safe house. Obiettivo di un gruppo di mercenari che assalta il nascondiglio, viene condotto in salvo dalla recluta Matt Weston, che lo costringe a una convivenza forzata per sfuggire ai comuni avversari. La violazione della “casa sicura” obbliga Matt a scontrarsi con un mondo ostile dove non ci si può fidare di nessuno, non esistono coordinate precise e i ruoli si confondono, perché se i buoni ricorrono senza remore alla violenza, i cattivi sono vittime di un gioco più grande di loro. Verità non fa rima con giustizia e, schiacciati dal peso delle responsabilità verso la patria, ideale ormai sbiadito, si finisce per mentire anche alla propria donna. Le suggestioni cinematografiche sono molteplici: se appare forzato il rimando a I tre giorni del Condor, comunque archetipo del genere, e necessario il riferimento alla saga su Jason Bourne, palese è il legame con il linguaggio ipertrofico di Tony Scott, fratello “minore” di Ridley. Safe House, senza dubbio più coerente nella sceneggiatura, canonica ma ponderata, rimane infatti un film verboso, eccessivo ma non eccentrico rispetto alla norma, che punta tutto sullo stordimento visivo e flirta con gli stereotipi concedendosi rare variazioni sul tema. Ciò che conta è la confezione, dal montaggio ipercinetico alla fotografia contrastiva, che suggerisce lo stato di alienazione in cui versa l’uomo contemporaneo e allo stesso tempo soffoca con furbizia una trama ordinaria. Se il ritmo figurativo è impeccabile, l’asse portante scricchiola: i due protagonisti formano una coppia ben assortita sulla carta ma squilibrata sullo schermo, dove Denzel Washington, sebbene sottotono e da anni succube del ruolo di uomo in trappola e in rotta coi poteri forti, surclassa inevitabilmente il fumettistico Ryan Reynolds, figlio di un divismo minore, funzionale e intercambiabile. La povertà di contenuto potrebbe essere sintomo di una sincerità apprezzabile, da parte di un regista che, guardando con piglio critico all’America odierna, si limita a mostrare e suggestionare: ma la forma, forse, non basta a se stessa.
Safe House – Nessuno è al sicuro [Safe House, USA 2012] REGIA Daniel Espinosa.
CAST Denzel Washington, Ryan Reynolds, Vera Farmiga, Brendan Gleeson.
SCENEGGIATURA David Guggenheim. FOTOGRAFIA Oliver Wood. MUSICHE Ramin Djawadi.
Azione/Thriller, durata 115 minuti.