Gli occhi del bambino
Per ogni artista arriva il momento di raccontare il proprio passato e ripensare al percorso in cui si è formato. Che sia al crepuscolo della vena creativa o all’apice della carriera, è un modo per capire se scegliere una nuova direzione: lo ha fatto ultimamente Sorrentino con È stata la mano di Dio e lo fa oggi Kenneth Branagh con Belfast, portando al cinema la sua città natale e il racconto di come è diventato il regista che conosciamo.
Branagh, scegliendo di fotografare i suoi ricordi con il bellissimo bianco e nero di Haris Zambarloukos, diventa il giovane Buddy che nell’Irlanda del Nord del 1969 vive da protestante in un quartiere diviso con i cattolici: le lotte religiose imperversano nelle strade e la sua famiglia dovrà prendere delle decisioni importanti per assicurarsi un futuro.
Se per Sorrentino Fabietto era il turbamento, la rabbia, l’incertezza della gioventù, la necessità di fuggire da un mondo diventato troppo stretto, Buddy non riesce a raccontarci altrettanto meglio il Kenneth bambino. Tutto rimane in superficie, sia la situazione sociopolitica irlandese che la voglia di esprimersi e diventare qualcuno. Vediamo spesso situazioni quotidiane in cui tutto è rivelato e allo stesso tempo poco approfondito, sembra quasi che il regista abbia paura di esporsi troppo. Le “rotture” e i soprusi di cui è vittima a Buddy, in famiglia e nelle strade, non sembrano averlo del tutto scalfito; è interessante invece il rapporto con il padre che però viene solo abbozzato: guardando gli eroi dei film, in televisione e al cinema, il giovane vede delle figure paterne che combattono vincendo, suo papà invece è al bar o lontano per lavoro, tutto qui. Come è ordinario il resoconto della guerra civile: è ovvio che la situazione sia vista dagli occhi di un bambino e quindi poco “ragionata”, ma celandosi dietro quel paravento non viene criticata o spiegata a chi potrebbe voler approfondire l’argomento. Forse non era tra le sue priorità, ma la cosa lascia dubbiosi. L’unico momento edificante e realmente personale è rappresentato dalle figure dei nonni, i magnifici Ciarán Hinds e Judi Dench, un fondamentale tassello volto a un’educazione sentimentale fondata su semplici gesti per scegliere da che parte stare. Sarebbe stato più interessante focalizzarsi su tutto ciò per ricordare che è sul passato che si basano le nostre scelte, il presente, per quanto “brutto” e violento, si può “cancellare” solo volgendo lo sguardo – anche se non si riesce – altrove.
Branagh scorda questi insegnamenti e vorrebbe farci commuovere con Buddy che scopre la morte o rimarcando il legame tra la sua storia e quella del suo popolo: “un popolo destinato a dividersi tra chi gira il mondo e chi resta in patria a soffrire per chi è partito”. Si perde però nel racconto che, visto l’argomento, avrebbe meritato anche una regia più lirica per elevare ogni sfumatura e sentimento. Ci lascia anche lui soli e con l’amaro in bocca. Resta impressa negli occhi la splendida mamma Caitríona Balfe e nelle orecchie le ipnotizzanti musiche di Van Morrison. Poco, purtroppo, per un film che poteva dare di più.