Perdere col 3D
Sono conciliabili il documentario e il 3D? Si può applicare una tecnica usata sostanzialmente per amplificare (e non forza spettacolarizzare) l’immagine narrativa ad un modo di intendere il cinema come immagine che documenta o vuole documentare?
Le risposte potrebbero essere così tante che per soddisfarle bisognerà attendere i documentari dei prossimi dieci, quindici e forse vent’anni (ma chi può dire quanto durerà ancora la moda e la presunta indispensabilità del 3D, prima che qualcos’altro lo soppianti e archivi?). Cave of Forgotten Dreams scatenerà una delle riflessioni più imprevedibili su questo argomento, e sull’uso che può fare un autore del documentario 3D. Herzog dà una risposta straordinaria perché deludente: per lui, che è uno dei poeti più grandi della storia del cinema, questo circolo vizioso tra documentario e 3D, tra tecnologia e questioni teoriche, non ha nessuna importanza. Herzog infatti ha avuto una sola regola lavorativa immodificabile in tutti questi anni: usare per sé il cinema e non farsi usare dal cinema. Per questo Cave of Forgotten Dreams è un nuovo modo di usare il 3D ma è anche una beffa a chi concepisce il futuro nella stereoscopia. La stereoscopia è l’ultimo strumento di profondità per l’arte dell’uomo contemporaneo, così come le incavature delle grotte sono state il primo strumento di profondità per l’arte dell’uomo primitivo. Si potrebbe motivare così la scelta di Herzog, di rispondere all’arte con altra arte, al passato con il futuro. Quindi usare il 3D non è un pretesto ma un’esigenza per documentare, non si sente come interferenza perché diventa uno strumento di contemplazione necessario, senza abusi: è come se per la prima volta la stereoscopia avesse trovato una legittimazione naturale, come nuovo cannocchiale, come nuovo strumento di osservazione. E basta. L’ammirazione di una pittura sconosciuta diventa progressivamente un’interrogazione perplessa, che dalla parola pittura si sposta alla parola sconosciuta vissuta come esperienza di estraneità. Arte sconosciuta, perché e da chi? Da noi, perché prevedibilmente l’uomo contemporaneo si “emoziona” davanti a una scoperta così importante come la prima pittura umana, ma non sa nulla di ciò che ha davanti. La storia di queste caverne non può aiutarci, nemmeno le risposte di chi la studia, e allora ammiriamo un’arte dell’uomo che non sembra arte dell’uomo. Herzog riesce a stabilire le conclusioni di questa sconfitta con una similitudine geniale ma amarissima, cambiando in un colpo solo tutte le unità di spazio, tempo e azione: l’uomo di oggi è per l’uomo di ieri come un coccodrillo che ha cambiato habitat, e sguazza nelle radiazioni diventando albino ma perdendo la propria identità originale. Un colpo solo e il 3D non serve più a nulla, se non a riprendere una sconfitta. Anzi, la sua stessa sconfitta, perché era stato usato per cercare “l’emozione” per un’arte passata. Ha vinto invece l’umanismo: razionalmente e coerentemente con il suo cinema, Herzog ha sempre vagliato con il fardello dello scetticismo e delle domande ciò che osserviamo, anche quando voleva soprattutto cercare nuove immagini per meravigliarsi. Cave of Forgotten Dreams è uno dei più imprevedibili, complessi e sconfortanti traumi estetici che il cinema abbia saputo filmare. Un documentario nato al di là del 3D, che passa dall’ammirazione al saggio. E alla sconfitta.
Cave of Forgotten Dreams [Id., Francia/Canada/USA/Gran Bretagna/Germania 2010] REGIA Werner Herzog.
SOGGETTO Werner Herzog. FOTOGRAFIA Peter Zeitlinger. MUSICHE Ernst Reijseger.
Documentario, durata 95 minuti.