SPECIALE CANNIBALI!
Non sparate sullo smartphone
I paragoni non si dovrebbero mai usare a unico metro di giudizio di un film. Ma se lo intitoli The Green Inferno e lo infarcisci di citazioni esplicite qualche confronto bisognerà pur farlo. Del Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, Eli Roth non richiama soltanto quell’ ”inferno verde” di cui parlava la troupe del ’79.
La stessa sequenza di apertura, con le imponenti riprese aree sulla Foresta dell’Amazzonia, è un omaggio più che sufficiente a rivendicarne la filiazione. In effetti, si parla di cannibali, di giungle insidiose e di colpe occidentali. Deodato ripercorreva le sanguinose tracce di una troupe televisiva scomparsa tra i cannibali, Roth segue quelle di un gruppo di attivisti intenzionati a salvare l’Amazzonia. Le premesse ci sono tutte, anche perché occupano più di metà del film, ma lo sviluppo è tutta un’altra storia. Per quanto vituperato con l’accusa di snuff movie ed effettivamente colpevole di violenze sugli animali, Cannibal Holocaust è un film con indiscutibili meriti di forma e contenuto. La perfezione del realismo ricercato dal regista, tanto nella tecnica della camera a mano che nel trattamento della pellicola appositamente graffiata, per non parlare della potenza scenografica delle scene girate tra gli indios, rendevano il film di Deodato un audace esempio di regia, inquietante e credibile al tempo stesso. L’accusa ai media sensazionalisti e alle efferatezze dei cosiddetti civili strappavano lo spettatore dalla sua zona di comfort, vestendolo dei panni disturbanti del carnefice voyeur. C’era satira e autoironia, c’era il Vietnam e l’ipocrisia borghese. Cosa ne resta in The Green Inferno? Molto poco, tecnicamente. L’indiscussa bellezza delle riprese aeree e l’impatto suggestivo offerto dagli indigeni coperti di sangue non bastano a compensare una perdita di efficacia proporzionale alla mancanza di credibilità. Non che si pretendesse un found footage ormai inflazionato, ma qui si parla di rapide che non trascinano per più di 100 metri, bambini che tagliano gole che non raggiungono in altezza e trascuratezze di questo genere, senza contare che una bustina di marjuana è in grado di sballare un intero villaggio, alla faccia di tutta l’erba di Grace. Certo il maltrattamento di animali è un pericolo scongiurato: giaguari e formiche, peraltro illesi, sono frutto di blanda CGI. Anche il messaggio è piuttosto tiepido: la satira verso l’attivismo dell’ultima ora, che affronta i sabotaggi come gite turistiche ed è pronto a scendere a compromessi in cambio di un po’ di visibilità, poteva essere uno spunto interessante. Ma si stempera nel dualismo tra un leader ipocrita e senza scrupoli e un’idealista pura su tutti i fronti, così come la critica all’esercito che stermina gli indigeni non impedisce di rappresentarlo in veste di cavalleria nel rocambolesco salvataggio finale. Una continua oscillazione che finisce con l’annacquare il film, almeno quanto le sequenze di comicità demenziale. Più riuscita la riflessione sui media, con gli smartphone in veste di feticcio e unica interfaccia con la realtà, nella doppia funzione di arma e di scudo brandito dal gruppo come una bandiera. Ma se nel film del ’79 una radio “tamburo tribale” salvava la vita incantando gli indigeni, qui si conquista l’aiuto di un bambino con il fischietto della nonna. Un espediente che, dopo tanta attesa, non smorza certo la delusione.
The Green Inferno [id., USA 2013] REGIA Eli Roth.
CAST Lorenza Izzo, Ariel Levy, Aaron Burns, Sky Ferreira, Nicolàs Martìnez.
SCENEGGIATURA Guillermo Almoedo, Nicolàs Lòpez, Eli Roth. FOTOGRAFIA Peter Hannan. MUSICHE Manuel Riveiro, Antonio Quercia.
Horror, durata 103 minuti.